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“Primo Levi, quel capolavoro che ha rischiato di non essere creduto”, di Roberto Saviano

Il mio rapporto personale con Se questo è un uomo è un rapporto viscerale. Se questo è un uomo è uno di quei libri da cui, una volta che ci entri dentro, non ne esci più. Non sei più uguale e non è semplicemente perché ti rende più giusto o migliore, ma perché ti cambia. Cambia il tuo modo di sentire, di vedere, ti costringe ad avere un’altra mente e un’altra sensibilità. È un cataclisma che non ha mai smesso di muoversi e attraversarmi.
Il mio rapporto con Se questo è un uomo è talmente stretto che mi sembra quasi che Levi sia per me un maestro conosciuto, che mi giudica in maniera severa e sa confortarmi quando subisco ingiustizie.
Si tratta di un rapporto carnale. Mi stupisco ogni volta di incontrare qualcuno che non abbia letto il libro. Mi stupisco quando ne racconto un episodio, e chi mi ascolta non ne ha mai sentito parlare: mi sembra incredibile. Le pagine sono divenute carne propria, conosciute riga per riga tanto che mi sembra impossibile che si possa vivere senza aver letto Se questo è un uomo;
non una semplice seppur grande testimonianza – ci sono splendidi libri di testimonianze –, ma un capolavoro della letteratura. Un libro sull’uomo, le sue immonde azioni e le sue eroiche resistenze. Levi è un grande scrittore che usa la potenza della parola per raccontare e fare memoria. Ma non gli interessa solo costruire la bella pagina, riesce piuttosto a coniugare gli strumenti dell’uomo colto con la necessità di comunicare quello che è stato.
Se questo è un uomo è sicuramente il libro che più di ogni altro ha determinato la mia visione della letteratura. Cito la risposta che Philip Roth dà quando gli si chiede quale sia stato per lui il libro più importante. Roth risponde Primo Levi. Risponde
Se questo è un uomo
perché, dice, dopo averlo letto non vieni semplicemente a sapere che è esistito l’orrore di Auschwitz, no. Dopo averlo letto non puoi più dire di non esserci stato ad Auschwitz. Non vieni soltanto a conoscenza di quello che è successo, ma sei lì e hai la certezza che la tua vita non possa più andare avanti senza metabolizzare quella esperienza.
È la potenza della letteratura: non veicola semplicemente informazioni, benché necessarie e importanti, ma ti dà più vita o ti toglie vita.
Se questo è un uomo è il manifesto di questa potenza.
E poi c’è la scrittura, e quella di Primo Levi è un modello. È innanzitutto la scrittura di un chimico. Il dettaglio e il meccanismo in cui quel dettaglio è contemplato, non sono per lui una quinta del racconto, ma l’oggetto vero del racconto stesso. Primo Levi non fa un libro sul campo di concentramento ma un libro sull’uomo. Sull’uomo in quelle particolari condizioni, travolto da tutto ciò che accade. Descrive il suo uomo da chimico e da filosofo, ne fa sistema. In questo è sicuramente uno degli scrittori più creativi in assoluto.
Può sembrare un’esagerazione o una provocazione, ma mi piace parlare di Primo Levi come creativo, perché arriva a raccontare il lager attraverso diverse strade: da come si conserva una scodella a come si conserva la dignità, da come Dante possa salvarti la vita se ti
ricordi i suoi versi al momento giusto, a come il latino possa servire a comunicare con un prete che non parla la tua lingua. La sua versatilità letteraria è quindi infinita. Ci sono diversi registri nelle sue pagine: c’è quello naturalista, quello positivista, persino quello fantastico, quello teologico. Insomma Levi è un mondo e stare in questo mondo mi ha fatto sentire a mio agio. La sua scrittura del resto mi ha profondamente influenzato: in molti casi ho cercato di aderire alla sua tecnica narrativa a metà tra il reportage e la scelta di mettere dentro le sue pagine molto di sé. Il suo modo di affrontare il dettaglio e allo stesso tempo la descrizione dei grandi meccanismi che
hanno portato quel dettaglio ad accadere, a verificarsi.
Primo Levi ha saputo mediare tra una timidezza fuori dal comune e l’ossessione quasi militante per la memoria. In quegli anni, Levi, mettendo a dura prova la sua naturale ritrosia e la diffidenza della società intellettuale, spesso scelse la televisione per condividere queste storie perché l’obiettivo era far conoscere. Io devo molta della mia formazione a Primo Levi, del mio modo di essere scrittore spurio, bastardo, quasi figlio di un dio minore che decide di dare spazio alle telecamere e al web perché l’obiettivo è far conoscere, l’obiettivo è mettere a disposizione del maggior numero di persone possibile ciò che accade in terre dimenticate. Di cui ci si ricorda solo quando muoiono innocenti.
E poi c’è l’incubo ricorrente, quello di tornare a casa, di voler raccontare e non essere creduto: il tema dei temi. Anche in questo Levi mi ha molto aiutato, come ti aiuta un terapeuta, un amico, una madre, una persona che ti ama. Un aiuto vero, “tecnico” e carnale insieme. Perché chi scrive di mafia è spesso non creduto e soprattutto è spesso malvisto. Mostra una ferita e, facendolo, immediatamente assurge a un ruolo di coraggio, e chi ha coraggio talvolta è insopportabile alla vista. Allo stesso tempo ti senti smarrito: ti domandi come sia possibile che non vengano viste dinamiche tanto palesi e che raccontare, scegliere di raccontare, di fare bene il proprio lavoro, ti porti a essere bersaglio delle critiche più aspre, spesso scorrette, subdole. Tutto ciò ti toglie punti di riferimento, ti lascia smarrito. Poi comprendi che molti di coloro che ti insultano con la bava alla bocca lo fanno perché hai visibilità e allora pensi a quanto sei stato ingenuo a pensare che gli addetti ai lavori – o come spesso li definisco “ai livori” – non si sarebbero fermati a guardare il dito. Ti scopri assolutamente inadeguato a interpretare il mondo, se pensavi che a interessare potessero essere le tue storie e non chi le racconta. Se davvero pensavi che il tuo racconto avrebbe solo portato ad approfondire dei temi cruciali e non ad attaccare chi ne parla. Ma poi pensi a chi ha vissuto l’inferno in terra e per molto tempo non è stato creduto.
Se questo è un uomo non fu immediatamente recepito come un libro di verità. Lo si considerò un po’ esagerato, inattuale, in un tempo in cui si stava ricostruendo il paese materialmente ma anche e forse soprattutto moralmente. Ma Se questo è un uomo era avvertito come esagerato e inattuale perché disturbava.
Il non essere creduto di cui scrive nelle sue pagine Levi – per esempio nel sogno del ritorno a casa: mentre si sta a tavola e si mangia molto, a un certo punto inizia a raccontare quello che è successo e le persone sedute invece di ascoltare si alzano, motteggiano, scherzano
e non ci credono affatto – è il pensiero con cui apre il libro nei versi messi in esergo. Versi che sembrano quasi un’accusa, un monito. Su questo Levi è severissimo: che tu possa essere maledetto, che la tua vita possa andare in malora se non racconti tutto ciò che ho descritto, perché non raccontandolo staresti negando. Questa è l’accusa di un uomo che pone la memoria di ciò che è stato al centro di tutto, come motivo di vita. Il non essere creduti di fronte alla tragedia, l’essere colpevolmente fraintesi, è come essere condannati a morte, è come perdere la propria dignità.
Levi insegna ad avere fiducia nella parola e quindi ti insegna a difenderla, a starci dentro e sopportare. Come se la parola stessa, alla fine di tutto, fosse la ricompensa naturale, la cosa di cui più ritenersi soddisfatti. L’unica ricompensa è la parola.

La Repubblica 06.11.13