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“Europa, sinistra batti un colpo”, di Laura Pennacchi

Le dure critiche in materia di politica economica che l’amministrazione Obama fa alla Germania della Merkel non sono estemporanee. Non a caso è più forte la denuncia secondo cui le elevate esportazioni tedesche, combinate con gli effetti ultra restrittivi dell’austerità, aggravano le difficoltà nel rilanciare la crescita in tutti i Paesi europei.

Questa denuncia viene fatta da tempo dagli economisti eterodossi rispetto alla linea dominante in Europa. Se mai stupisce che la sinistra europea, e italiana, non faccia proprie a gran voce tali critiche rilanciando la propria immagine «progressista» dell’Europa, con il rischio di lasciare in campo, come dice Andriani, solo due posizioni di destra, l’una per l’appunto votata all’austerità, l’altra coltivante populismo antieuro e nazionalismo (nella quale confluiscono sia gli anatemi alla Berlusconi sia quelli alla Grillo). Eppure, l’associazione imposta dalla Germania tra «austerità» restrittiva e «riforme strutturali» si fonda su una visione mercantilistica che va attentamente soppesata, risalendo alle origini degli squilibri presenti nel continente europeo già agli inizi degli anni 90, quando venne tracciato il percorso che avrebbe dato vita all’euro. Il regime globale di accumulazione costruito negli anni 90 era intrinsecamente instabile, basato su global imbalances. All’Est, dopo la crisi asiatica del 1997-1998, la decisione di affrancarsi dalla dipendenza dai capitali occidentali e di difendere la propria sovranità aveva spinto i paesi, con la Cina in testa, a creare surplus delle bilance dei pagamenti mediante una crescita trainata dalle esportazioni, dando così vita ai giganteschi flussi di capitale verso gli Usa destinati a finanziare l’alimentazione locale del credito, attraverso le operazioni di «securitisation» e l’espansione dei derivati tramite le grandi banche. All’Ovest il recupero di un’alta profittabilità era stato imposto dall’approccio della shareholder value e alimentata con l’intensa pressione verso il basso sul lavoro e sui salari, mentre il dinamismo della domanda era stato assicurato con consumi finanziati a debito, sostenuto dall’espansione del credito e dai bassi tassi di interesse.

Ma specifici imbalances erano e sono presenti in Europa, tra paesi strutturalmente in deficit delle bilance commerciali e dei pagamenti e paesi strutturalmente in attivo. La Germania, dopo aver risposto ai costi della riunificazione – per sostenere i quali impose a tutta l’Europa gli alti tassi di interesse che generarono l’implosione nel 1992 del Serpente Monetario Europeo – con una ristrutturazione «mercantilistica» che portò alle stelle la sua competitività mentre manteneva repressa la domanda interna, con l’ingresso nell’Euro ha potuto beneficiare di un cambio sottovalutato rispetto al marco, accentuando la vocazione alle esportazioni. Contemporaneamente, proprio nella fase in cui i paesi del Sud-Est asiatico lanciavano l’offensiva commerciale volta a ridurre il peso del loro debito, il cambio fisso minò la profittabilità degli altri paesi europei, in alcuni dei quali, come la Spagna, l’atrofizzazione della base industriale veniva sollecitata dalla destinazione – ad opera non in ultimo delle banche tedesche – di enormi flussi finanziari nelle costruzioni e nelle bolle immobiliari. L’eterogeneità economica dell’Eurozona ne è risultata rafforzata, in particolare mediante accelerati fenomeni di deindustrializzazione nei paesi sudeuroepi. Paradossalmente oggi lo stesso meccanismo della moneta unica accentua le divergenze: il tasso di cambio tende a risultare troppo alto per i paesi deboli e basso per quelli forti che ne traggono vantaggio, il che spiega le sbalorditive performance nel commercio estero di Germania e Olanda. Poiché gran parte dell’attivo della loro bilancia dei pagamenti corrisponde a passivi di altri paesi europei è chiaro che la Germania non è più la locomotiva di Europa: essa utilizza la domanda interna di altri paesi europei per la propria crescita.

Questa visione mercantilistica è l’altra faccia di una versione del neoliberismo, di matrice hayekiana, detta «ordoliberale», la quale associa alla dottrina dell’austerità – attribuente solo al settore pubblico la possibilità di generare deficit cronici, riconoscendo, al contrario, ai mercati un’intrinseca capacità di rientrare dai propri eccessi (il che peraltro è stato drammaticamente contraddetto proprio dalla crisi globale) – la teoria delle riforme strutturali, sostanzialmente riproponente una supply side economics gravitante su liberalizzazioni, concorrenza, privatizzazioni. L’imputata è sempre la spesa pubblica (specie sociale), ridurre la quale sarebbe il prerequisito primario per liberare l’offerta, sollecitare la concorrenza e la competizione, stimolare l’investimento privato e così alla fine attivare la crescita, anche se soltanto dopo moltissimi anni (come purtroppo accadrà in Italia). I problemi della domanda sono fuori dell’attenzione, il modello sociale europeo viene decretato defunto, gli investimenti pubblici non vengono nemmeno presi in considerazione, le sofferenze occupazionali che a lungo si debbono vivere sono viste come un male necessario.

È per invertire queste tendenze e combattere più efficacemente le divergenze di competitività e di produttività fra paesi che la linea dell’austerità in Europa va sottoposta a una rivoluzione e non a semplici aggiustamenti: va perseguito un New Deal europeo. Questa è la strada che propongono di percorrere sia il piano del lavoro della Cgil sia il Piano Marshall per l’Europa lanciato dalla Dgb tedesca, il quale ha al suo centro un piano di investimenti inter e intraeuropei per la trasformazione e la modernizzazione dell’ordinamento economico. Al mercantilismo obbediente al principio che l’obiettivo dei governi e delle loro politiche economiche non sia l’elevamento del benessere e della qualità della vita dei cittadini, ma incrementare le esportazioni per aumentare la competitività e la potenza del Paese, va opposta una diversa visione dell’economia e delle strutture che generano la crescita e, conseguentemente, una diversa visione della politica economica. Una visione «progressista» con l’obiettivo di combattere la disoccupazione e creare lavoro, ponendo le basi di un nuovo modello di sviluppo, considerando insieme domanda e offerta, privilegiando la domanda interna su quella estera, non sacrificando i consumi collettivi a quelli individuali, investendo primariamente sui beni pubblici, i beni comuni, i beni sociali.

L’Unità 07.11.13