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“La promessa di Bill il rosso: New York città degli eguali”, di Vittorio Zucconi

Proprio nel momento della vergogna per il caso Datagate, l’America estrae dal cilindro della propria democrazia vivente uno sconosciuto sindaco di New York che riaccende ammirazione, entusiasmi e speranze. Bill de Blasio, l’ex funzionario del Comune addetto alle lagnanze dei cittadini. Il figlio di quella Brooklyn guardata per generazioni come la sorella minore della superba Manhattan nato oltre il ponte del potere, ripropone tutto quello che il mondo invidia a New York e che l’Europa non riesce a imitare: la capacità di rinnovarsi.
Tre mesi or sono, all’inizio della campagna elettorale per sostituire il miliardario Bloomberg, appena due newyorkesi su dieci conoscevano il nome di de Blasio e la sua corsa alla massima poltrona della città appariva poco più che velleitaria. Martedì sera, quel voto di tre elettori su quattro, il 73,8%, quasi cinquanta punti percentuali più della vittima sacrificale repubblicana, ha sbalordito persino i suoi sondaggisti che pure lo davano come sicuro vincitore. Neppure l’Obama trionfale del 2008 aveva saputo fare altrettanto e si deve tornare al mitico Fiorello La Guardia per ritrovare un plebiscito così massiccio.
Il vento tumultuoso che ha spinto questo figlio di un padre tedesco che preferì l’identità e il nome italiani della madre, che ha scelto il graffiante «rap» bianco dei Beasty Boys come colonna sonora della vittoria, è quello che periodicamente si alza nelle democrazie dove il sistema elettorale non imbriglia, ma intercetta, addirittura impone il cambiamento. Che cosa farà, chi sarà il de Blasio sindaco di una città che gli lascia due miliardi di dollari di debito ed è già fra le più tassate degli Stati Uniti è ovviamente impossibile dire. Le sue promesse sono state molte a tutti e l’esperienza fatta con Barack Obama ha insegnato a distinguere fra la storia personale e le realizzazioni, a diffidare dei simboli in attesa della sostanza.
Governare New York è come governare un mondo, se non il mondo. Non esiste problema che non si riversi su questa città delle città e de Blasio rappresenta oggi tutto quello che i newyorkesi vorrebbero essere e quello che vogliono sentirsi dire da chi li dovrà guidare. È il prodotto di una multietnicità, di un meticciato, che è la sostanza, la natura stessa di New York, non una debolezza. È il democratico classico, vintage, di sinistra, che vuole più eguaglianza, più giustizia per i dimenticati e per gli ultimi, dunque più distribuzione della ricchezza raggrumata nei castelli del potere finanziario a Times Square e nelle rocche di Park Avenue e della East Side. È però anche il newyorkese «no nonsense», poche storie, che prima solidarizza con i manifestanti di Occupy Wall Street per lamentare la concentrazione di danaro nei pochi rapaci e poi si affretta a chiarire che «Wall Street è la principale industria della nostra città», apparentemente contraddicendosi. Uno che sa bene da che parte è imburrata la fetta del pane e da che parte sarebbe tempo di spalmare più burro.
Ma New York è la mela che fiorisce e matura nella contraddizione, la metropoli che vive perennemente sospesa nella formula dickensiana del «migliore dei tempi e del peggiori dei tempi » e anche i suoi elettori, che vanno dalla sinistra più rumorosa ai finanzieri che hanno alimentato la sua campagna, lo sanno benissimo. Quello che importa ai residenti di una città che neppure chi rase al suolo i suoi monumenti più orgogliosi riuscì ad abbattere perché confuse il cemento con la gente, è che le acque si muovano. Che la ruota della politica giri, che la palude non ristagni nella soffocante stabilità di altre nazioni immobili.
New York elegge, dopo il lungo regno, di un conservatore moderato e illuminato come Bloomberg, il suo opposto in Bill de Blasio non perché gli elettori siano improvvisamente divenuti rivoluzionari dopo essere stati reazionari. Ma perché sente di dover mutare pelle.
Sempre grazie al sistema elettorale del maggioritario secco, dove un solo vincitore deve emergere da subito, la apparente rivoluzione di New York è soltanto la conferma della propria natura e della intuizione di fondo che sta alla base della propria fortuna: la necessità vitale dell’alternanza. C’è, direbbe l’Ecclesiaste, un tempo per fare soldi e un tempo per distribuirli, un tempo per diventare ricchi e un tempo per prendersi cura dei poveri, un tempo per i finanzieri bancarottieri di Wall Street e un tempo per i sindacati che chiedono aumenti di paga. E se anche Bill de Blasio, il gigante italiano delle speranze, dovesse fallire – come già New York è fallita, e ha fatto fallire, più volte nella propria storia – se ne eleggerà un altro, uno completamente diverso. Perché è il cambiamento quello che tiene viva la città di tutte le città.

La Repubblica 07.11.13