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“Lasciata sola contro i boss ecco perché non sono più un sindaco della Locride”, di Attilio Bolzoni

Perché è tornata a fare la farmacista? «Perché non mi sentivo più libera di fare il sindaco». Perché continua a vivere nella Locride? «Perché non saprei vivere altrove». Cos’è oggi la sua Calabria? «Una terra lunga lunga e vuota vuota dove i giovani se ne vanno perché la trovano ostile». E non solo loro. «Dal 2000 ci sono stati più di mille atti intimidatori contro amministratori locali calabresi », ricorda Maria Carmela Lanzetta, per sette anni sindaco di Monasterace, ultimo paese della provincia di Reggio sul mare Jonio dove lei — perseguitata dai boss della ’ndrangheta e dai suoi complici — è una di quei personaggi che vorrebbero «una rivolta per cambiare tutto» e sotterrare «la politica del malaffare». Di passaggio per Roma, si porta sempre dietro i fedeli carabinieri della scorta e una delusione per come vanno le cose in fondo a un’Italia sempre più lontana. «Molti non l’hanno ancora capito, ma non occuparsi della Calabria vuol dire non occuparsi dell’intera nazione», dice.
Quando ha conosciuto per la prima volta la ’ndrangheta?
«Vengo da una famiglia dove hanno sequestrato uno zio e una cugina. Poi è toccata a me. La prima volta mi hanno bruciato la farmacia nel 2011, nel 2012 hanno sparato sulla mia auto, qualche mese dopo hanno dato fuoco alle macchine di due assessori e poi ancora scritto sulla porta di casa di un’altra assessore i nomi delle sue figlie. Un inferno».
E si è dimessa per paura?
«La paura c’era, eccome. Ma mi sono dimessa quando un altro assessore ha votato contro la costituzione di parte civile in un processo dove era coinvolto un tecnico comunale. Non ce l’ho fatta più. E poi, dopo anni di isolamento, sono rimasta schiacciata fra le parole vuote delle istituzioni e una politica che non si occupa mai dei problemi delle persone, pensa solo a se stessa. Parlo anche del partito al quale sono iscritta, il Pd».
Eppure è folto il gruppo dei sindaci e degli amministratori calabresi che in questi anni ha spinto verso un cambiamento. Quella di Rosarno, quello di Riace, i sindaci di Isola Capo Rizzuto, di Decollatura, di Gerace e di Bianco…
«Sì tanti, ma che non hanno voce fuori dai loro confini. Ci abbiamo provato in tutti i modi, anche alla vigilia della campagna elettorale del febbraio scorso. Tutti insieme abbiamo mandato un documento al segretario Bersani, non per candidare me o un altro sindaco ma per segnalare “una presenza legata al territorio”. Non necessariamente uno di noi, una personalità di area. Anzi, avevamo fatto un altro passo: più che una rappresentanza in Parlamento chiedevamo di offrire un contributo, volevamo spiegare quale era la nostra realtà. Bersani, alla nostra mail, non ha mai risposto».
Bersani però l’ha più volte citata come «esempio» in tanti dibattiti,
una volta è venuto anche a trovarla a Monasterace quando si era dimessa la prima volta nel 2012.
«Poi non si è mai più fatto sentire. E gli apparati di partito hanno catapultato candidati su candidati — alcuni come Rosy Bindi estranei al nostro territorio — ed è cominciata una campagna elettorale scialba. Dove dei nostri drammi si è parlato poco. Dove di mafia, a volte, non si è parlato mai».
La capolista in Calabria, Rosy Bindi, qualche settimana fa è stasinteressata
ta nominata presidente della Commissione Antimafia. Una scelta tormentata. La sua opinione?
«Una scelta non credibile. Ma non soltanto per lei, ce ne sono altri non credibili lì dentro. La Commissione Antimafia, per come è nata, non ha rappresentato un bel segnale per territori come la Calabria o la Sicilia. Secondo me è inutile, e alla Bindi dovevano dare una poltrona per forza. Dispiace dire queste cose ma una commissione antimafia perché funzioni deve avere credibilità e la Bindi, in materia, questa credibilità non ce l’ha. Penso a commissioni come quella presieduta da Luciano Violante dopo le stragi del 1992. E anche a quella di Francesco Forgione, che ha fatto una bellissima relazione sulla Calabria».
Voi sindaci, l’avete più vista la presidente Bindi nella Locride dopo la campagna elettorale?
«L’abbiamo invitata un giorno d’agosto a un’iniziativa ma non è venuta. Un altro giorno siamo andati a incontrarla a Reggio e, dopo due ore e mezza di anticamera, ci è sembrata fredda, distaccata, di-
ai nostri problemi. Peccato, ha un bel passato alle spalle. E anche se l’hanno catapultata qui per le politiche, in un primo momento avevamo pensato “adesso faremo qualcosa” e invece… Lo ripeto: non avrebbe dovuto accettare quella poltrona solo per la poltrona. Se vuole sfatare questa sensazione di inutilità della sua commissione dovrebbe venire in Calabria e cominciare dal basso, magari anche occuparsi del nostro partito».
Sta dicendo che c’è bisogno anche di un po’ di pulizia nel Pd calabrese?
«Non di pulizia ma di una vera e propria rifondazione».
Tira così una brutta aria laggiù?
«Cupa».
Lei rifarebbe il sindaco?
«Mai più. Mi sono sentita troppo sola. Fra atti intimidatori, minacce e drammi anche solo per cambiare una lampadina in comune ».
Perché è a Roma?
«Un convegno. Sono qui per parlare dei piccoli comuni che sono la forza della democrazia. L’altra politica, quella di Roma, è troppo lontana per capire».
D’ora in poi farà sempre e solo la farmacista?
«Come mia madre. Si è laureata nel 1950 a Bologna partendo da Mammola, un paesino aggrappato alle montagne. E ha aperto la nostra farmacia nel ’54».

La Repubblica 10.11.13