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“I crolli di Pompei. Storia di uno sfascio”, di Luca Dal Frà

Rumors, rumor di sciabole, manovre retroscniche si addensano su Pompei, celebre nel mondo più che per la sua bellezza, per l’incuria e il dilettantismo nelle italiche politiche culturali, un sito archeologico che vive una ennesima stagione ingloriosa, mentre continuano i crolli. L’ultimo è beffardamente avvenuto proprio su quella via dell’Abbondanza che tutti sanno essere maggiormente a rischio. Un crollo fortunatamente non poderoso, ma poderosamente amplificato dai media, per tirare la volata alla nomina di un direttore a Pompei figura prevista dal decreto Valore cultura -, per rilanciare una situazione in pesante stallo da due anni: a contendersi la poltrona sarebbero Fabrizio Magani e Giuseppe Scognamiglio.
Primo e probabilmente unico caso di un funzionario del Ministero degli Esteri distaccato presso una banca, Scognamiglio è stato consulente al Commercio con l’Estero, responsabile delle politiche di sostegno all’internazionalizzazione del sistema economico italiano, è nei consigli direttivi più vari, dall’Abi a Save the children, oltre che promotore della camera di commercio italo-turca e presidente della società editoriale della banca dove è dirigente. E altro ancora, però non s’è mai occupato di cultura, e godrebbe dell’appoggio del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Patroni Griffi e, a quanto pare, dello stesso presidente Enrico Letta.
Magani è invece un ottimo storico dell’arte in forza al Ministero per i Beni e le Attività Culturali. A circa quattro anni dal terremoto di l’Aquila, dopo che la gestione commissariale e della Protezione civile pur potendo agire in deroga alla normativa non aveva iniziato alcuna ricostruzione, Magani è divenuto direttore regionale per l’Abruzzo e in breve tempo ha avviato molti cantieri, attraverso i regolari percorsi di legge, con precisi cronoprogrammi su cui chiedergli conto, gestiti con trasparenza sul sito ufficiale della sua direzione. Non è certo l’unico funzionario tecnico-scientifico in grado di far marciare la macchina dello Stato meglio di commissari e supermanager: ad appoggiarlo sarebbe il ministro competente Massimo Bray.
I media danno l’immagine dello scontro, oramai annoso, che in questo Paese vede opposti tecnici contro manager per la direzione di entità culturali, ma la cosa convince poco. Perché il profilo di Scognamiglio non è di un manager ma, nella migliore delle ipotesi, di un diplomatico al servizio delle banche, magari ottimo mediatore virtuoso nell’arte del compromesso, nella peggiore delle ipotesi di un lobbista. Il che non significa sia una delle due cose, ma la dice lunga su chi lo sostiene in quanto manager, mentre Magani non è un archeologo e allora perché spostarlo, rischiando di non risolvere i problemi di Pompei e riacutizzare quelli de L’Aquila.
Occorre andare oltre la querelle dei nomi per capire quella che oramai appare la più possente rogna della storia dell’archeologia, cioè Pompei e tutti i suoi guai. Siamo nel 2011, le casse svuotate dal supermanager della protezione civile Marcello Fiori per inutili lavori a dimostrarlo è anche una relazione della Corte dei Conti -, dopo i crolli quasi quotidiani che rimbalzavano sulla stampa come palle di fucile, a Pompei sembra consumarsi la sconfitta definitiva dei commissariamenti e dei supermanager culturali. Sul sito cala però una inquietante immobilità. In quel momento si comincia a parlare concretamente di 105 milioni di euro della Unione Europea (UE) da destinare a Pompei, un iter accelerato dall’allora ministro per la Coesione Territoriale, Raffaele Fitto. Di lì a poco alla Soprintendenza di Pompei viene affiancata Invitalia, con il compito di seguire gli aspetti amministrativi: è un nuovo semi-commissariamento, presentato come salvifico ma rivelatosi al di sotto delle aspettative, tanto che quasi nulla si muove.
Entra in scena Giancarlo Galan come Ministro della cultura: il suo famigerato Decreto salva Pompei, in realtà svuota ulteriormente le casse della Soprintendenza senza tuttavia intaccare i fondi Ue che non potevano essere distratti -, e scardina una parte della tutela intorno all’area archeologica, ipotizzando la creazione di edifici per il turismo da costruire in deroga alla normativa. Scende subito in campo una non meglio precisata cordata di imprenditori campani, che trova sponda politica in Scilipoti, e si mette a disposizione. Attenzione, non per dare danaro a Pompei, ma prenderne: realizzando quelle strutture che il decreto prevederebbe con soldi non loro ma pubblici (forse i 105 mln della Ue?).
Nello stesso periodo un consorzio di aziende francesi, queste sì pronte a dare di tasca loro decine di milioni di euro per ulteriori restauri sul sito vesuviano, si è dileguato nel nulla, e vagli a dar torto visto quanto accadeva altro che partecipazione dei privati, quelli che davvero vogliono dar soldi li facciamo scappare.
Entra in scena il Governo Monti, nel 2012 nasce il Grande Progetto Pompei (GPP) da realizzare con i 105 mln Ue, una gioiosa macchina da guerra con dentro 4 ministeri, la presidenza del Consiglio, sempre Invitalia e la prefettura antimafia a vegliare sui bandi perché, si disse, quelli di Pompei non dovevano essere inquinati dalla camorra, quasi gli altri bandi godessero invece di una franchigia.
Il piano, da un punto di vista archeologico curato dal Segretariato generale del Mibac, sbandiera una mezza dozzina di importanti interventi, per lo più risalenti a una decina di anni prima, all’epoca della soprintendenza di Pier Giovanni Guzzo, e mai realizzati nel successivo periodo della spendarella commissariale. È però un progetto culturalmente non ineccepibile: Pompei non abbisogna tanto e solo di progetti speciali ma, come dimostrano i crolli recenti, ha soprattutto urgenza, si sottolinea urgenza, di triviale manutenzione, che sarebbe ordinaria in un sito archeologico ma non si riesce a fare per la mancanza di personale specializzato. Difficile poi sfuggire all’impressione che rispetto all’ordinario i piani faraonici siano ben spendibili a livello di immagine.
Parola d’ordine del GPP è comunque «sinergie», termine che ama essere usato nelle conferenze stampa dal tempo dei socialisti craxiani che lo nobilitarono, ma fin da allora si traduce spesso o in compromessi talvolta consociativi, oppure in una macchina burocratica immobile. Forse prevedibilmente e, ahimè, anche previsto, a Pompei si verifica la seconda ipotesi: lo stallo continua.
Estate 2013, un nuovo rapporto Unesco al calor bianco minaccia velatamente di togliere il patrocinio al sito, mentre si fa reale il rischio di perdere i 105 mln UeE per scadenza termini. Si prova a correre ai ripari con il decreto Valore cultura, dove si torna all’idea di un plenipotenziario, un direttore con ampie deroghe che tanto assomiglia a un commissario straordinario. In sede parlamentare al momento della conversione in legge è aggiunto un vicedirettore, figura di non chiara funzione burocratica, dunque probabile omaggio alle larghe intese.
Oltre le buone intenzioni di tutti, il solo elenco di queste iniziative, percorse da un certo nervosismo normativo e forti incertezze politico-culturali, sembra convergere in un punto. Sorge lo spontaneo dubbio che ancora una volta il problema non sia Pompei ma i 105 mln dell’Ue, per i quali sarebbe in corso uno scontro di potere. Certo sommerso ma senza esclusione di colpi e dove si fronteggiano politica, impresa, clientelismi, allegre cordate e su cui pesa anche l’ombra della criminalità organizzata. Forse in questa luce si spiegano le titubanze, le pressioni, i minuetti istituzionali e i vestalici furori di questi giorni intorno alla nomina di un direttore per Pompei, che si troverà a dover fare in fretta e a rivedere profondamente il piano stilato due anni fa, già allora inadeguato.

L’Unità 12.11.13