attualità, memoria

“Segreti, silenzi e bugie per un delitto politico”, di Benedetta Tobagi

Il trauma delle stragi impunite, confinato nel silenzio, coltiva un tumore nel corpo della società. Nessuno, beninteso, se non due vecchi estremisti di destra, si permetterebbe mai di dire apertamente che la gente se ne frega di sentir parlare delle bombe. Per carità, con tutti quei morti, pietà cattolica non lo consente. Per depotenziare il trauma, scatta un meccanismo di rimozione più efficace. Si lascia che gli orrori galleggino in una nebbia lattea di indeterminatezza in cui tutto resta astratto, sospeso, sterilizzato. Emerge giusto qualche scoglio, qualche nome, frammenti di cronaca ripetuti come un mantra. Gherardo Colombo, un uomo che sa scegliere le parole con grande cura, nel volume autobiografico
Il vizio della memoria conia una formula perfetta. «Solenni ovvietà», così chiama tutte quelle cose terribili che «si sanno» ma senza conoscerle davvero, ciò che tutti hanno orecchiato prima o poi, magari indignandosi brevemente, ma resta lì, sospeso nel vuoto. Fatti pesanti come macigni, ridotti alla stregua di isole disperse. La traccia dei collegamenti si affievolisce e si perde nel ricordo, fino a che diventano grumi illeggibili cui è difficile, e spiacevole, pensare. Meglio lasciar perdere: tanto, per fortuna, è passato. È lontano. Oppure, è solo l’ennesima prova che è tutto uno schifo e non vale la pena di tornarci su. La storia di ogni strage è complessa, un labirinto pieno di false tracce e vicoli ciechi in cui è facile perdersi (non bisogna lasciarsi sviare dall’immagine addomesticata dei labirinti di siepi ben disegnati che adornano i giardini delle ville aristocratiche: la strage somiglia piuttosto al dedalo originario, dimora del Minotauro, mostro divoratore di innocenti che, una volta gettati dentro, non avevano scampo). È difficile ritesserne le fila. Allora si semplifica. «Strage impunita» è un marchio che funziona. Sui giornali e in Tv, solo le assoluzioni continuano a fare notizia, molto più dell’incriminazione o persino della condanna in extremis di qualche criminale di mezz’età di cui nessuno sa niente. Le stragi impunite sono ridotte da tempo a una litania inoffensiva, «perché Piazza Fontana, Brescia, la stazione di Bologna, l’Italicus, Ustica eccetera, eccetera, eccetera…» cantava Gaber con lapidaria ironia in
Qualcuno era comunista.
Una fiammata d’indignazione e una lacrima. Un luogo e tutt’al più una cifra, il numero dei morti: come le vecchie targhe delle macchine, o le sigle dei taxi, Milano 17, Brescia 8, Bologna 85… Risuonano appelli rituali ormai logori, «abolire il segreto di Stato», «scoprire i mandanti», mentre in questo magma indistinto muore d’asfissia la fiducia dei cittadini verso lo Stato.
Parole, elencazioni, evocazioni. Pochissime immagini. Ecco, alla storia delle stragi impunite manca persino un immaginario a cui appigliarsi per ricominciare a pensare. Non esiste l’equivalente della foto del ragazzo con la P38 in via De Amicis, a Milano, divenuta simbolo degli “anni di piombo”, ed è logico: i colpevoli sono per lo più senza volto. Ma nemmeno il corrispettivo del Moro prigioniero che regge un quotidiano davanti allo stendardo delle Brigate rosse. Le immagini delle stragi sono prive di esseri umani. […] Il 28 maggio 1974 consegna il proprio racconto ai volti degli uomini. A Brescia non è avvenuta la più grande delle stragi, né la più nota. Ma è diversa dalle altre, per tanti motivi, e lo si capisce già dalle fotografie. «Strage col più alto tasso di politicità», è stato detto: perché la bomba colpì una manifestazione antifascista. Le immagini di piazza della Loggia dopo l’esplosione brulicano di persone. Gente che grida, corre, scappa, piange, resta impietrita. Manifestanti che soccorrono le vittime.
(tratto da Una stella incoronata di buio in uscita con Einaudi)

La Repubblica 12.11.13

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LA STRAGE. BRESCIA, 28 MAGGIO 1974 “QUI NON È SUCCESSO NIENTE”, di GAD LERNER
Benedetta e zio Manlio. Benedetta e quella data fatidica, il 28 maggio. Forse ora ho capito da dove abbia tratto Benedetta Tobagi — proprio lei, figlia di una vittima del terrorismo — la forza di salire sul palco di piazza Duomo gremita di milanesi alla fine della campagna elettorale del 2011 per difendere il candidato Giuliano Pisapia dalla calunnia del sindaco uscente, Letizia Moratti, che lo aveva accusato di complicità con i brigatisti. In una città ancora lacerata dai rancori e dai misteri ereditati dagli anni di piombo, si levava una voce addolorata, giovane ma matura, che invocava rigore storico contro le strumentalizzazioni propagandistiche. Non le bastava riscuotere pubblica compassione. Aveva già dedicato al feroce delitto politico che il 28 maggio 1980 le aveva strappato il padre, un libro struggente eppure magistrale nella documentazione: Come mi batte forte il cuore.
Ma ora capisco che di quel bisogno di capire, elaborato intorno a una ferita non rimarginabile, Benedetta ha fatto una scelta di vita. Raccogliendo del giornalista Walter Tobagi non solo l’impegno civile ma anche l’inesausto spirito di ricerca: perché mai la vicenda della nostra Repubblica è così tragicamente intrisa di violenza politica?
Non potevo saperlo, ma quando Benedetta parlò in piazza Duomo già si era rinsaldata una relazione profonda fra lei e lo zio acquisito, così ama chiamarlo, zio Manlio. Nel nuovo libro di Benedetta Tobagi, Una stella incoronata di buio. Storia di una strage impunita (Einaudi, pagg. 470, euro 20), è lui che figura come straordinario protagonista: Manlio Milani, l’operaio bresciano che in un altro cupo 28 maggio dell’anno 1974 aveva perduto la moglie Livia. Uccisa dalla bomba scoppiata in piazza della Loggia lo stesso giorno, sei anni prima, dell’omicidio Tobagi.
Benedetta e Manlio si sono conosciuti nel maggio 2007 a una trasmissione dell’Infedele e da allora non si sono lasciati più. Lei ha cominciato a frequentare la sede della Casa della memoria di Brescia della quale Manlio è l’anima, nella sua veste di instancabile presidente dell’Associazione familiari delle vittime. Così, da un intenso rapporto di identificazione e da un passaggio generazionale condiviso nella «luce segreta della perseveranza», è nato il libro: il ritratto di Livia e degli altri amici rimasti vittime dell’attentato si allarga pagina dopo pagina nel contesto della città percorsa da tensioni sociali e scontri ideologici, fino a dare vita a un affresco d’insieme della penisola degli anni Settanta e della strategia della tensione che l’ha insanguinata. Di nuovo, come solo Benedetta Tobagi sa fare, le umane passioni, le speranze, gli amori, i miti culturali, si ricompongono in un impianto storiografico finalmente decifrabile.
Per i molti che, quarant’anni dopo, hanno il diritto di non saperlo, stiamo parlando di otto morti e centodue feriti fra i lavoratori in sciopero convenuti in piazza della Loggia per manifestare contro la recrudescenza degli atti di violenza fascista nella città di Brescia. Una bomba vigliacca, nascosta in un cestino portarifiuti, viene fatta esplodere durante il comizio del sindacalista Franco Castrezzati. C’è un filmato che fa male al cuore ogni volta che lo si rivede. L’eloquio stentoreo di Castrezzati, il botto che lo sovrasta, la nuvola di fumo bianco che si solleva, le urla della folla, di nuovo il sindacalista
che invita i compagni a mantenere la calma… Negli anni precedenti vi erano stati diversi attentati sanguinosi sui treni, oltre che la strage di piazza Fontana. Ma quella di Brescia fu la prima volta che una bomba seminò la morte nel mezzo di uno sciopero unitario dei sindacati. Passerà meno di un mese e anche le Brigate Rosse cominceranno a uccidere: due missini in una sede di Padova. Allo stragismo di destra risponde l’omicidio politico di sinistra.
La fotografia di Manlio Milani nel mentre sorregge il capo di Livia che spira, e con l’altro braccio levato pare rivolgersi alla folla, ha la tragicità pittorica di una passione. Ripercorriamo la loro vicenda sentimentale fra la sezione comunista, il circolo culturale, il consultorio dell’Aied dove, vincendo la timidezza, Livia insegna l’uso dei contraccettivi a tante donne bresciane (Adele Faccio dorme a casa loro quando passa da quelle parti). Un amore che minimizza le differenze di classe: Livia, insegnante, è la prima in famiglia a frequentare l’università; Manlio, operaio, l’ha conosciuta sul treno dei pendolari mentre tornava dalla Casa della Cultura di Milano. Se lui non ha avuto la possibilità di studiare, lei proprio per questo vuole che condividano perfino la stesura della tesi di laurea sul Gattopardo.
Attraverso di loro conosciamo Brescia nella sua età del ferro, o meglio del tondino. Una città che nel 1971 vede impegnato nell’industria addirittura il 58 per cento della popolazione. Un padronato di nuovi ricchi compiaciuti della propria grevità, simboleggiato dal
self made man
Luigi Lucchini, istintivamente ostile alla sinistra e al sindacato. Ma Brescia è anche la città in cui gli operai cattolici gareggiano con quelli della Fiom in coerenza militante antifascista. E dove l’assessore democristiano Luigi Bazoli, la cui moglie Giulietta rimane anch’essa uccisa dalla bomba, decide di accompagnarla al cimitero con la bandiera rossa perché era quella la fede politica di lei. E poi la stessa bandiera rossa verrà esposta da Bazoli nel suo ufficio al Comune. Fra i morti tre donne; cinque insegnanti, tutti impegnati nel sindacato; due operai; un ex partigiano. Solo il servizio d’ordine sindacale potrà garantire, nei giorni seguenti, che la rabbia popolare non vada oltre i fischi e non travolga le autorità (dal capo dello Stato, Giovanni Leone, al premier Mariano Rumor) convenute per i funerali.
Se questa è la Brescia di Manlio Milani, che oggi tutti conoscono e rispettano in città, ce n’è un’altra opaca che Benedetta Tobagi va a rintracciare, aggirandosi con pazienza certosina nel labirinto dei depistaggi e delle testimonianze fasulle imbeccate da un capitano dei carabinieri che avrebbe fatto carriera fino a diventare generale: Francesco Delfino.
I ritratti degli uomini della destra eversiva — dal bellissimo ventunenne Silvio Ferrari morto pochi giorni prima della strage mentre trasportava in scooter dell’esplosivo, all’ex partigiano Carlo Fumagalli, amico di Edgardo Sogno e come lui divenuto anticomunista fino al punto di reclutare i nemici di un tempo — sono un libro nel libro. Vediamo muoversi alle loro spalle la struttura che fa capo ai fascisti di Ordine Nuovo, fuorilegge da un anno ma dotati di una struttura clandestina la cui finalità è dichiaratamente seminare il terrore, preparare un colpo di Stato, debellare il pericolo comunista. Dando per scontato, come teorizza Pino Rauti, che tanto «la terza guerra mondiale è già cominciata ».
Questo anticomunismo paranoico è il tessuto connettivo che riunisce segretamente, nella loggia massonica P2 e in altre strutture parallele, i funzionari dei servizi segreti, alti ufficiali dei carabinieri e delle Forze armate, toghe con l’ermellino, ai capi della destra eversiva che traffica con gli esplosivi. Toccante è il racconto dell’inutile viaggio fino in Giappone di Manlio Milani, nel vano tentativo di convincere a tornare in Italia per raccontare la sua verità Delfo Zorzi, dirigente di Ordine Nuovo, divenuto facoltoso imprenditore.
Lo sciame di attentati e di sussulti golpisti che precedono la strage di Brescia impressiona chi oggi lo rilegge in sequenza. Ma perfino una lettera firmata Partito nazionale fascista, e indirizzata al
Giornale di Brescia sei giorni prima dell’attentato, preannunciava l’intenzione di commetterlo. Perché non le fu dato il giusto peso dai responsabili della pubblica sicurezza? La latitanza e la connivenza di uomini dello Stato smettono di essere un’insinuazione generica, grazie alla ricerca di Benedetta Tobagi: sono esposte inequivocabilmente nero su bianco. Fino alla penosa sequenza dei processi, funestati da omicidi di pentiti in carcere e dalle morti sospette di potenziali testimoni scomodi. Fino all’umiliante esito delle assoluzioni per insufficienza di prove: Maggi Carlo Maria, Zorzi Delfo, Tramonte Maurizio, Rauti Giuseppe Umberto, Delfino Francesco… La magistratura, oltre trent’anni dopo, getta la spugna.
In piazza della Loggia viene conservato sotto vetro, dal giorno della strage, il manifesto del comitato antifascista con le sigle dei partiti e dei sindacati che convocava la manifestazione. Dopo la sentenza ci hanno appiccicato su un cartello: «In questo luogo il 28 maggio 1974 non è
successo niente».

La Repubblica, 12.11.13