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“Il diritto di chi vota”, di Massimo Giannini

Non c’è riforma più tradita di quella che riguarda il sistema elettorale. I partiti ne discutono, inutilmente e strumentalmente, ormai da otto anni. Da quando il centrodestra berlusconiano, già allora dilaniato dalle contese ereditarie e dalle confusioni identitarie, impose al Parlamento e al Paese la famosa «legge porcata». Concepita in una baita delle Dolomiti dai sedicenti «saggi» dell’allora Cdl, fin troppo lucidi a dispetto dei tanti bicchierini di grappa bevuti per l’occasione. Il loro unico obiettivo era sabotare la vittoria elettorale dell’Unione di Prodi e, in subordine, espropriare gli elettori del diritto di scegliere i propri eletti. Missione compiuta.
Da allora, un ceto politico sempre più impresentabile ha rinnovato ciclicamente la promessa di correggere quell’«errore », e di farsi perdonare quell’orrore. Oggi dobbiamo prendere atto che questo Parlamento non è in grado, per cinismo e opportunismo, di onorare l’impegno. In Commissione Affari Costituzionali del Senato va in onda l’ennesima, penosa messinscena. Quello che importa è solo il tornaconto dei commedianti, e non l’interesse del pubblico. Ogni gruppo recita a soggetto, anche se di malavoglia, perché il 3 dicembre arriva la temuta sentenza della Consulta. Il Pd, sostenuto da Sel e Scelta Civica, presenta la sua mozione sul doppio turno di coalizione. Naturalmente non passa. Vota no il Pdl, che ha una vaga preferenza per il proporzionale ma non ha una linea precisa, essendo ormai ridotto a un cumulo di macerie alla vigilia della danza macabra di sabato prossimo intorno al totem del Cavaliere oscuro. Vota no la Lega, che dopo averlo allegramente rottamato, intestandosi il Porcellum per la firma del suo eroico ministro Calderoli, ora ha addirittura la faccia tosta di proporre il ripristino del Mattarellum. Si astiene il Movimento 5 Stelle, che nell’entropia autoreferenziale delle nomenklature agonizzanti sguazza e spera sempre di prosperare.
Questo è lo scenario, mesto e decomposto, che si offre al popolo sovrano. Ogni partito insegue un suo «modello » per blindare, con la meccanica elettorale, i consensi che fatica a mantenere nella rappresentanza sociale. Il Porcellum è il padre di tutti i guai di questi ultimi anni: ha generato degrado istituzionale (come confermano gli scandali che attraversano l’intera Penisola) e disaffezione civile (come dimostrano i successi del primo vero partito italiano, quello degli astensionisti). Dopo aver concepito un “Frankenstein” del genere, non c’è da inventare chissà quale altro mostro. Basta scegliere tra i sistemi che fanno funzionare da quasi un secolo le grandi democrazie europee. Invece no. Gli azzeccagarbugli tricolori le provano tutte, ibridando il «tedesco», il «francese», da ultimo lo «svizzero» e l’«Ispanico».
L’ultimo «esperimento», di cui si sente parlare nei corridoi tra Palazzo Chigi, Montecitorio e Palazzo Madama, sarebbe un nuovo pastrocchio che mantiene le liste bloccate (anche se più ristrette e con una rappresentanza di genere vincolata), e introduce per la Camera una soglia del 40% per accedere al premio di maggioranza di 340 seggi. Non l’eutanasia del Porcellum, ma addirittura la sua rinascita. Un Super Porcellum che, nella crisi irreversibile del sistema e nel declino inarrestabile dei grandi partiti di massa, produrrebbe l’unico effetto di non far vincere nessuno. E dunque «costituzionalizzerebbe » di fatto la formula delle Larghe Intese, alla quale un apparato politico destrutturato e tendenzialmente consociativo come il nostro tende ormai quasi per inerzia. Oltre che l’esproprio definitivo del diritto di scelta dei cittadini, questa sarebbe la morte certa del bipolarismo. Cioè dell’unico «valore» creato, indirettamente e suo malgrado, dal Ventennio berlusconiano. Per questo, a prescindere da ogni valutazione specifica sul modello del «sindaco d’Italia» caro al candidato segretario del Pd, non si può dare torto a Matteo Renzi, che sfida il suo e tutti i partiti a rinunciare ai miserabili interessi di bottega e ai mediocri compromessi al ribasso, e a puntare invece su un accordo di profilo «alto», che garantisca insieme la governabilità e l’alternanza.
Non c’è principio più giusto che questo: chi vota deve sapere, la sera stessa delle elezioni, chi ha vinto e chi governerà il Paese. Deve poter decidere in piena libertà chi può rappresentarlo al meglio sul territorio, e non dentro le stanze chiuse delle segreterie. E deve poter sperare che se il suo schieramento perde le elezioni una volta, può sicuramente vincerle la prossima. Senza bisogno di ricorrere a Grosse Coalizioni tanto forzose quanto improprie, che dovrebbero governare i grandi cambiamenti e invece vivacchiano di piccoli accomodamenti.
Ma questa speranza, ancora una volta, sembra destinata a naufragare. Con buona pace dei cittadini, che dai referendum di Mario Segni nei primi anni Novanta aspettano ancora una legge elettorale chiara e semplice, che consenta loro di scegliere un partito e una coalizione, un candidato premier e un deputato o un senatore da mandare in propria vece alla Camera o al Senato. E con tanti saluti a Giorgio Napolitano, che frusta i partiti dall’inizio del suo mandato al Quirinale, e che al superamento definitivo del Porcellum ha legato la sua stessa disponibilità alla rielezione. Per questo è ora di dire basta. Servono un sussulto di dignità e un’assunzione di responsabilità. Per curare la nostra democrazia ferita.
Il Pd ha di fronte due soluzioni. La prima, minimale, è il ritorno al Mattarellum. C’è il problema giuridico di come assicurare la «riviviscenza» di una legge pre-esistente? Lo si risolva. Nella patria del diritto questo è un ostacolo superabile. La seconda, più ambiziosa, è il rilancio del maggioritario a doppio turno, come avviene in Francia e come lo stesso Pd aveva già deciso nel 2011. C’è il problema tecnico di come introdurlo in un regime che non prevede il semi-presidenzialismo? Lo si affronti. Nella prospettiva di un’Italia «de-berlusconizzata» anche questo non è un tabù inviolabile.
Si tratta di scegliere. E di farlo subito, con convinzione. Senza retropensieri «gran-coalizionisti» o riserve mentali correntizie. Un pregiudiziale «cui prodest» di una riforma elettorale, oggi, è solo l’ultimo sintomo, esiziale, del collasso etico-politico di un’intera classe dirigente, che vuole tenersi la «porcata» di Calderoli perché la considera la sua «polizza vita». Basterebbe riformarla, e un minuto dopo cadrebbero tutti gli alibi per non mandare a casa l’intero Parlamento e non tornare subito alle urne. Anche per questo la riforma va fatta, e subito. L’Italia, che non è la Germania, ha un disperato bisogno di tornare alla «normalità» bipolare. È vero che, in un Paese in crisi economica, non si vive di legge elettorale. Ma è altrettanto vero che, in un Paese in bancarotta morale, di Porcellum si può anche morire.

La Repubblica 13.11.13

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“Legge elettoralePdl e grillini bocciano doppio turno”, di Andrea Carugati

Mentre il presidente Napolitano invoca «un briciolo di responsabilità» per superare il Porcellum, la commissione Affari costituzionali del Senato boccia il doppio turno proposto dal Pd. Votano contro Pdl, Lega e 5Stelle. Nel Pd Renzi ribadisce il no al «Superporcellum», ovvero a una correzione proporzionale dell’attuale legge. Giuristi divisi sull’ipotesi decreto.
L’ennesima fumata nera sulla legge elettorale. E pensare che ieri in Senato si votava solo su degli ordini del giorno: nulla di vincolante, dunque. E tuttavia il fronte composto da Pdl e M5S ha affondato la proposta del Pd, che puntava sul doppio turno di coalizione: una soluzione di buon senso che prevede che se nessuno schieramento supera il 40%, si va al ballottaggio due settimane dopo tra i primi due, per decidere chi ha diritto al premio di maggioranza. Una soluzione simile a quella in suo da vent’anni per i sindaci, già sdoganata dai 35 saggi del governo guidati dal ministro Quagliariello.
Niente da fare. Ieri in commissione Affari costituzionali del Senato sono arrivati solo 11 sì: Pd, Sel e Scelta civica. Ben 10 i no (Pdl e Lega), e cinque astenuti, i grillini più il senatore Francesco Palermo del gruppo delle Autonomie. Ma al Senato l’astensione vale come voto contrario, e dunque l’odg è stato affondato. Dal Pdl, che pure professa bipolarismo a ogni piè sospinto, non arrivano spiegazioni convincenti per questo no. «Il doppio turno funziona solo se si vota per una Camera sola, altrimenti si rischia di avere maggioranze diverse nei due rami del Parlamento», spiega Donato Bruno. Lucio Malan la butta sui costi: «Votare due volte sarebbe una spesa enorme, oltre 140 milioni buttati». Motivazioni che rivelano il vero movente dei berluscones: tenersi il Porcellum. Discorso molto simile per i grillini, che in un sistema molto bipolare si troverebbero strettissimi. «Pdl irresponsabili, ha rifiutato ogni mediazione», accusa il Pd Nicola Latorre. Rinviate a data da destinarsi invece le votazioni sugli odg della Lega, che proponeva il ritorno al Mattarellum, e dei Cinquestelle, che suggerivano un modello simil-spagnolo a impianto fortemente proporzionale. La richiesta di rinvio è arrivata dal Pd, che sul Mattarellum non ha ancora una posizione chiara. La scelta dell’assemblea dei senatori, ieri a pranzo, è stata quella del rinvio, per un motivo semplice: «Oggi la nostra battaglia deve essere chiara e per il doppio turno». E tuttavia sul vecchio maggioritario tra i democratici si sta iniziando a ragionare. Del resto, come ricorda malizioso il leghista Calderoli, al Senato ci sono ben tre proposte Pd per il ritorno al Mattarellum, firmate da Finocchiaro, Esposito e dai renziani. Prima della votazione, che potrebbe slittare di una o due settimane, i democratici si ritroveranno in assemblea, per decidere il da farsi, dopo che Sel e Scelta civica si sono già detti disponibili a dire sì. «È comunque meglio del Porcellum», sintetizza la renziana Rosa Maria Di Giorgi. I grillini sembrano orientati a non votarlo. «L’odg di Calderoli ha un impianto troppo bipolare per noi», ragiona l’ex capogruppo Nicola Morra.
Tra i senatori, c’è la consapevolezza che in questo momento è praticamente impossibile arrivare a una nuova legge elettorale: troppe le incognite dentro i partiti della maggioranza, con il Pdl sull’orlo della scissione e un Pd in piena campagna congressuale. Renzi annuncia prima delle primarie di dicembre una sua proposta «sul modello del sindaco d’Italia», i suoi hanno lavorato sodo contro ogni ipotesi di ritorno al proporzionale che «costringe alle larghe intese perenni». La loro tesi ormai è la linea del gruppo, ma non mancano le polemiche. Attacca il bersaniano D’Attorre: «Speriamo che tutte queste polemiche di Renzi non siano per tenersi il Porcellum…». Gli risponde la renziana De Monte: «Studiati la linea del Pd». Giachetti intanto prosegue con lo sciopero della fame e attacca Finocchiaro: «Sua la colpa dello stallo».
«NO A UN DECRETO»
Gli occhi sono puntati sul Consiglio nazionale del Pdl del 16. Se ci sarà una scissione, con la nascita di un partito delle colombe, anche la legge elettorale potrebbe sbloccarsi. Non è un mistero che Quagliariello sia favorevole al doppio turno, dopo la riforma del bicameralismo. L’obiettivo è quello di blindare il governo fino al 2015, e di varare la legge a doppio turno dopo le riforme costituzionali. Un traguardo assai ambizioso. Renzi punta ad approfittare dello stallo in Senato per dirottare la riforma alla Camera, dove Pd, Sel e Scelta civica hanno una robusta maggioranza. Ma non sarà semplice, senza un intervento dei presidenti delle Camere, traslocare la riforma da palazzo Madama a Montecitorio.
Sullo sfondo resta l’ipotesi di un decreto del governo, ventilata due giorni fa dallo stesso premier Letta «ma solo se saranno le Camere a chiederlo». Sarebbe una novità assoluta su un tema del genere. «Una follia solo pensarlo, un golpe», dice Calderoli. E lo stesso Quagliariello frena: «Non lo faremo il decreto, ci sarebbero anche problemi per i requisiti di necessità e urgenza». Possibile invece la strada di un disegno di legge governativo. Su quale impianto? Difficile che il governo cerchi di rianimare il proporzionale con premio solo per chi supera il 40%, il cosiddetto super Porcellum decisamente inviso a Renzi. Più verosimile invece che l’esecutivo si muova sulla scia della relazione dei saggi, e cioè sul doppio turno. Questa ipotesi, però, è fortemente osteggiata dai berluscones, e prevede che ci si muova nel solco di una nuova maggioranza, formata da Pd, montiani e alfaniani. Fino a sabato l’argomento resta tabù.

L’Unità 13.11.13