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“La nostra ricchezza. L’immigrato fa bene ai conti”, di Adriana Comaschi

Oggi piccola imprenditrice, ieri bambina-soldato in fuga dalla guerra civile. Azeb Gebrewahid ne ha fatta di strada, in tutti i sensi. Da Adua a Bologna, passando per Karthoum e la Svizzera per approdare in Italia come richiedente asilo. Quando è sbarcata a Milano non aveva nulla, neanche una giacca per proteggersi dal freddo di dicembre, nessun appoggio. Ora ha una sua ditta di pulizie, tre dipendenti assunti e diversi stagisti. Italiani e stranieri.
Viene da pensare anche a lei, oggi che l’ampio dossier statistico sull’immigrazione 2013, a cura del Centro studi IDOS, certifica al di là di luoghi comuni e dibattiti pregiudiziali che gli immigrati sono una ricchezza per il Belpaese. Nel dettaglio: nel 2011, lo Stato italiano tra contributi e tasse ha incassato da cittadini stranieri 13,3 miliardi, a fronte di 11,9 miliardi di spese sostenute per loro. Il che dà un saldo netto di 1,4 miliardi. Spese peraltro concentrate sulla gestione delle emergenze, tra Cie («non devono essere una pena per gli irregolari», ha commentato proprio ieri il ministro per l’Integrazione Cecile Kyenge) e centri di accoglienza.
DA BIMBA SOLDATO A IMPRENDITRICE
Un punto fermo importante, in tempi di crisi, che rende giustizia a tanti lavoratori arrivati da lontano che qui hanno deciso di mettere radici. Oltre 2,3 milioni, in aumento anche sul totale degli occupati (sono il 10%). In gran parte dipendenti, soprattutto nel terziario (62%), ma si contano anche circa 200 mila autonomi. Leggi artigiani, commercianti, piccoli imprenditori che magari da zero mettono su ditte in grado di creare altro lavoro. Come nel caso della signora Azeb, etiope di origine ma ormai cittadina italiana, da oltre vent’anni in questo paese che, dice, «sento come mio perché è in Italia che è iniziata la mia vita civile, è come se fosse rinata. Sono cresciuta in mezzo alla guerra, a 12 anni mi hanno arrestata perché i mie fratelli combattevano, sono diventata anch’io un soldato per 9 lunghi anni. La mia fortuna è di essere rimasta ferita, mi hanno operata in Sudan. E da lì ho deciso di fuggire». Una volta riconosciuta come rifugiata ha cominciato a fare lavoretti, poi cinque anni da operaia specializzata in una ditta di pulizie. Fino all’«idea pazza di mettermi in proprio. Ho usato tutti i mie risparmi, ho ottenuto un prestito, hanno creduto in me e questo è stato importante». Nel giro di pochi anni la sua Sas assume un ragazzo nigeriano, uno domenicano e uno italiano, «ora sto per prendere un signore del Laos, ci sono tutti i continenti» scherza. Poi c’è chi si ferma per un anno e mezzo, come una ragazza italiana dopo il diploma, ci sono persone svantaggiate inserite con stages, «anche questa è una soddisfazione». La sua e altre sono storie di «Quasi italiani», che il docente Romano Benini ha riunito in un volume (Donizelli) dopo averle raccolte sul territorio tramite la Cna, l’associazione degli artigiania che cura anche la parte sulle imprese straniere del dossier Immigrazione. Storie di chi ha una presenza sul territorio consolidata da anni ma il principio è sempre quello, «capire detta Fosco Corradini, responsabile immigrazione Cna che si deve parlare di immigrazione come opportunità e non come problema». A maggior ragione visto quanto illustrato dal dossier Unar sul rapporto costo/benefici per la collettività. «Questi lavoratori continua non rubano il posto agli italiani, anzi coprono fette di mercato che altrimenti resterebbero scoperte». In agricoltura come nelle pulizie. «La crisi non ha colore, colpisce tutti, ne possiamo uscire solo uniti» commenta Kyenge.
NUOVI NATI E DISCRIMINAZIONI
Ed ecco alcune delle cifre più significative del rapporto. La popolazione straniera cresce ancora, nonostante il calo dei flussi di entrata dovuto alla crisi. I residenti stranieri arrivano nel 2012 a 4,3 milioni, pari al 7,4% della popolazione complessiva, 3,7 milioni sono i non comunitari: in tutto 5,2 milioni se si contano anche ricongiungimenti familiari e nuovi nati. Che sono quasi 80 mila (sempre nel 2012), ovvero il 14,9% di tutte le nascite, a cui si aggiungono i 26.700 figli di coppie miste. E a proposito di matrimoni tra cittadini italiani e stranieri, nel 2011 hanno toccato quota 18 mila, l’8,8% sul totale degli sposalizi. Gli studenti stranieri iscritti allo scorso anno scolastico sono invece 800 mila, l’8,8% del totale che sale al 9,8% nella scuole dell’infanzia e nella primaria: il 47% di loro è nato in Italia (l’80% nelle materne). Tornando al mondo del lavoro, sono quasi mezzo milione (477.519) le imprese con un titolare o più soci stranieri, per un valore aggiunto stimato si noti bene in 7 miliardi. Una realtà con una crescita annuale del 5,4%, nonostante il maggior costo degli interessi sui prestiti.
Note dolenti si registrano ancora sul fronte della discriminazione, «molto forte nello sport e nell’accesso al lavoro» avverte Kyenge. E nell’accesso alla casa: gli affitti incidono per il 40% sui redditi degli immigrati (per meno del 30% su quelli degli italiani), si trovano con più difficoltà e sono più spesso in nero. A scuola poi pochi i corsi di alfabetizzazione, mentre il liceo rimane un miraggio: l’80% degli alunni stranieri viene ‘orientato’ verso istituti tecnici e professionali.

l’Unità 14.11.13

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Il libro racconta quel valore aggiunto, sociale ed economico
di Oreste Pivetta

Scrivere di immigrazione è ormai narrare di una attualità che dura almeno da un quarto di secolo e chissà quanto ancora durerà, vissuta nel segno di un’emergenza continua dai toni più o meno acuti. Accogliamoli tutti, Il Saggiatore, di Luigi Manconi (sociologo e parlamentare, presidente della Commissione straordinaria per la tutela dei diritti umani del Senato) e Valentina Brinis (ricercatrice presso l’associazione ABuonDiritto Onlus) prova a mostrare la via per superare la sindrome dell’allarme o dell’allarmismo perenni: sembra una provocazione, ma leggendo centoventi pagine diventa la sintesi di un modo ragionevole, antiretorico nel bene e nel male, persino utilitaristico, per discutere di una vicenda umana vissuta a volte come tragedia, temuta come a un’invasione, uno tsunami, sempre giudicata un problema, con un unico costante intatto interrogativo: «Che fare?». Talvolta la risposta è stata semplice: non fare nulla, fidare nella naturale osmosi tra i tanti della società italiana e i pochi delle nuove comunità straniere. Altre volte la misericordia o la solidarietà hanno ispirato l’iniziativa persino di un ministro o di un amministratore, più spesso di una parrocchia o di una associazione di volontari, seguendo le tradizionali “subculture” del paese, quella del cattolicesimo sociale, quella del socialismo democratico e quella liberale, tutte e tre indisponibili ad assecondare pulsioni xenofobe e tentazioni razzistiche. Altre volte ancora la risposta è stata di negazione, di rifiuto, con un atteggiamento che è stato ed è retaggio di razzismo ma anche sintomo dell’opportunismo di chi, da Bossi a Maroni a Grillo, cerca consenso elettorale favorendo sentimenti diffusi di chiusura, più forti quanto più acute sono le tensioni sociali. In ogni caso, tra indifferenza, solidarietà, pietà, ostilità, mai si sono imboccate in modo risoluto le strade che Manconi e Brinis indicano: quella dell’utilità, quella dei diritti. Perché non esistono condizioni di emergenza che legittimino la sospensione del diritto, d’altra parte una società avveduta dovrebbe riconoscere che l’immigrazione è utile. Se ne sono accorti migliaia di anziani e migliaia di figli che non se la sarebbero potuta cavare senza badanti peruviane, filippine, ucraine, moldave polacche. Si dovrebbe fare un passo avanti, perché un paese di vecchi, immobile, stanco e sfiduciato, ha bisogno, per crescere, di quella forza, intellettuale e fisica, di quella forza dinamica, vitale, ambiziosa rappresentata dagli immigrati. Accogliamoli tutti ragiona sulle responsabilità della comunità internazionale. E ha un senso solo se il soggetto di quest’esortativo è «noi europei, noi occidentali », capaci di esprimere una politica per la gestione razionale del fenomeno e l’integrazione degli stranieri in un’ottica di lungo periodo. Ma c’è altro, rispetto al nostro «che fare?», ed è importante perché è di oggi ed è tra noi. Elencando alcune vicende e luoghi come Surigheddu, in Sardegna, Treviso, Badolato, Novellara, vicende di lavoro, di nuovi lavori, di cooperative, piccole aziende (molte in agricoltura), tra contadini, mungitori, donne delle pulizie, falegnami, imbianchini, casi virtuosi di proficua integrazione, che hanno ridato vigore ad imprese sull’orlo del tracollo o persino già defunte, a campagne desertificate, a cascine abbandonate… Manconi e Brinis dimostrano la vitalità di una strategia dei piccoli passi, anche di un operare concreto in attesa di grandi leggi e di grandi interventi, di un operare con fantasia cogliendo necessità e ricchezze e particolarità di un territorio e un’urgenza del fare, propria di chi arriva, di chi ha bisogno e non può aspettare, che diventa vantaggio economico per la comunità, nel rispetto ovviamente dei diritti, che è valore per tutti, italiani e stranieri.

l’Unità 14.11.13

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Quel tesoro che viene da fuori. Era compito della politica seria evitare la «guerra dei poveri» e l’aumento dei sentimenti razzisti, di Nicola Cacace

GLI IMMIGRATI COSTANO TROPPO ALL’ITALIA? FALSO. SOPPESANDO COSTI E BENEFICI I «NUOVI ITALIANI» PORTANO IN DOTE ALLE CASSE DELLO STATO UN GRUZZOLO DI UN MILIARDO E MEZZO DI EURO. È quanto emerge dal Dossier statistico 2013 del Centro Studi e Ricerche Idos, in collaborazione con l’Unar, la più completa rassegna documentata su un tema su cui le bugie propagandistiche sono
più abbondanti delle analisi serie.
Rispetto agli introiti di 13,3 miliardi che i 4 milioni di lavoratori stranieri danno allo Stato per contributi previdenziali e tasse ci sono 11,9 miliardi che lo Stato spende più per interventi di contrasto all’immigrazione che per le politiche di integrazione. E che lo Stato spende male per il «fenomeno immigrati» tutto il mondo lo ha visto anche nel recente dramma di Lampedusa con 350 morti annegati, lasciando i 200 superstiti giorni e giorni al vento ed all’acqua senza un minimo di protezione. Sarebbero bastate un po’ di tende della protezione civile, a costo zero, per non mostrare al mondo l’indegno spettacolo dei superstiti per giorni e giorni mal riparati sotto rifugi improvvisati e precari. Ma questo è l’eterno discorso dell’inefficienza della nostra pubblica amministrazione e, va detto, anche dei politici che la dirigono, spesso più attenti a mostrare lacrime che a promuovere interventi efficaci e anche meno costosi.
Le caratteristiche dell’immigrazione in Italia sono: a) la sua crescita impetuosa nell’ultimo decennio, da 1,5 milioni a 5 milioni; b) l’ingresso degli stranieri nei lavori più umili, mal pagati e pur necessari, favorito dal buco demografico italiano, cominciato ormai 35 anni fa, quando improvvisamente le nascite si sono dimezzate da un milione a mezzo milione l’anno. Ed oggi la presenza degli immigrati in tutti i settori è tale che se improvvisamente domani partissero o scioperassero, il Paese letteralmente fallirebbe. Altro che 1,5 miliardi di contributo netto allo Stato, le perdite di ricchezza ammonterebbero a decine e centinaia di miliardi! Andrebbero in crisi interi settori, dall’agricoltura all’allevamento, con quasi 200mila lavoratori stranieri alla pesca specie d’altura con 10mila stranieri, dalle costruzioni con almeno 300mila edili all’industria manifatturiera pesante (fonderie, concerie, carni, etc.) con più di 300mila stranieri, dal commercio, alberghi, pizzerie e ristoranti con 500mila stranieri alla sanità con almeno 30mila stranieri, dai trasporti con quasi 100mila stranieri ai servizi domestici con quasi 2 milioni di colf e badanti.
Un conto economico più completo di quello contabile del Dossier statistico 2013 porterebbe a stimare in molte decine di miliardi, almeno 100 (e non 1,5 miliardi… ), il contributo reale che gli immigrati apportano al Paese. A questo riguardo va detto che il successo crescente di partiti xenofobi e anti-euro in Europa, la stessa posizione anti immigrati di Grillo, derivano anche dai modi sbagliati ed incolti con cui la sinistra affronta il tema. Prendiamo un esempio, quanti italiani, davanti al «casino» mediatico dei drammatici sbarchi dall’Africa, sanno che dei 4 milioni di immigrazione netta in Italia del decennio 20002010, appena 25mila sono venuti dal Mediterraneo, poco più del 5%?
Alla Lega e ad altri xenofobi che parlavano di «invasione dall’Africa» nessun politico, nei tanti inutili talk show ha saputo buttare in faccia le cifre vere. Adesso il flusso complessivo di immigrazione si è dimezzato, da 400mila a 200mila l’anno, per la crisi in atto e per le nostre cattive politiche migratorie, attente più a criminalizzare che a integrare, più a rendere difficile l’ingresso a mestieri e professioni necessarie allo sviluppo che a favorirlo. E nessuno ha spiegato agli italiani come fece Elmut Kohl ai tedeschi in una famosa seduta del Bundestag che «se domani partissero tutti gli stranieri il Paese si fermerebbe, dagli ospedali alle fabbriche, dagli alberghi alla nettezza urbana, dai trasporti al commercio, dalla agricoltura alla pesca». Era compito della politica seria, soprattutto della sinistra, evitare la guerra dei poveri e l’aumento dei sentimenti razzisti, ahimé in atto, spiegando meglio alla gente che con la disoccupazione e la pesante crisi in atto gli immigrati non c’entrano neanche un poco. Anzi, se partissero, interi settori fallirebbero!

L’Unità 14.11.13