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“La strategia dell’instabilità”, di Claudio Sardo

Il Pdl è sull’orlo della scissione. Da oltre un mese. È possibile ma non scontato che la rottura definitiva si consumi domani. I rapporti personali tra i contendenti sono logorati, la fiducia è praticamente azzerata, definire un quadro di garanzie reciproche pare impossibile: eppure ci sono ragioni politiche obiettive che militano a favore di una convivenza, benché forzata e conflittuale. L’idea che la separazione tra governativi e ultrà berlusconiani sia di per sé un atto liberatorio per un centrodestra a vocazione europea, e al tempo stesso un fattore di stabilità per il governo Letta, è apparsa da subito molto ingenua. È vero che Berlusconi lavora per la caduta dell’esecutivo e per il ritorno alle urne nei primi mesi del 2014, ma qualcuno pensa davvero che il passaggio formale all’opposizione del Cavaliere e dei parlamentari a lui fedeli fornirebbe garanzie aggiuntive al governo in carica? I numeri diventerebbero esigui, non solo nei passaggi politici più importanti, bensì nell’attività ordinaria almeno del Senato (come accadde ai tempi del secondo governo Prodi). E soprattutto cambierebbe la natura del governo Letta – da esecutivo di emergenza, senza vere intese, a governo sostenuto da una maggioranza politica, seppure impropria – riaprendo una questione assai complicata nello stesso Partito democratico (come dimostra il dibattito congressuale). Renzi non è mai riuscito a nascondere la sua preferenza per un rapido ritorno alle urne, anche se ha fin qui assicurato che non farà sgambetti a Letta: sarebbe ancora valido l’impegno se questo non fosse più un governo di necessità, ma un’alleanza centrosinistra-centrodestra con un contenuto di riforme, a quel punto, da definire in modo esplicito e accettabile da tutti i contraenti?

Alfano e i ministri del Pdl scommettono sul governo e sulla scadenza nel 2015, anche perché tra i più convinti sostenitori della stabilità ci sono la cancelliera Merkel, il presidente Obama e il governatore Draghi, e presso di loro intendono accreditare un nuovo centrodestra, dopo il discredito accumulato da Berlusconi. Ma per quanto ciò appaia contradditorio (come contraddittorie e infedeli suonano le dichiarazioni di fedeltà a Berlusconi, ribadite in queste settimane), ad Alfano e ai suoi la rottura non conviene. Perché il Cavaliere sarà comunque costretto ad arretrare nella dimensione pubblica a causa degli effetti della sentenza di condanna e del prosieguo dei processi. E perché spostare l’asse verso il Partito popolare europeo è possibile se il nucleo dei «governativi» potrà comunque operare nell’area vasta (e grigia) del fronte conservatore. Al di là delle contingenze, infatti, il nodo è l’identità del centrodestra post-berlusconiano. Sarà un’identità segnata dall’euroscetticismo montante dei populisti o aggancerà le forze popolari e conservatrici dell’Europa continentali (come Berlusconi non hai mai davvero voluto fare)? Il Cavaliere ha compiuto nel suo ventennio politico una mutazione genetica dell’area moderata, spostando l’asse decisamente verso destra, fino a contestare la Costituzione, fino a assumere un profilo populista, fino ad allargare consapevolmente le linee di frattura tra Nord e Sud. Alfano e i suoi, in tutta evidenza, non hanno un orizzonte neo-democristiano: il salto politico sarebbe troppo grande, dunque impossibile. Vogliono però modificare le coordinate verso i partiti conservatori dell’Europa e per fare questo hanno bisogno (prima del sostegno dei centristi italiani) di esercitare un’egemonia sul blocco sociale costruito da Berlusconi. Se non convinceranno una parte di quegli elettori, non ci sarà presenza al governo che eviterà loro la marginalità.

Ma è proprio lì che vuole spingerli Berlusconi. Il quale avrebbe pure qualche interesse a non rompere. Quantomeno a non rompere subito. Se Alfano conquistasse anche soltanto qualche consenso in più di Fini, il partito berlusconiano rischierebbe di diventare il terzo polo, dopo i democratici e Grillo. Peraltro la priorità del Cavaliere è in questo momento la cosiddetta «agibilità». Ovvero la difesa personale dalle conseguenze delegittimanti della sentenza a suo carico. L’impresa a cui Berlusconi chiama i fedelissimi è sostanzialmente eversiva, dal momento che poggia su un rifiuto della legalità. Ma ha bisogno esso stesso di non dare l’impressione di auto-emarginarsi. Per questo un mese e mezzo fa ha votato la fiducia al governo Letta dopo aver tentato disperatamente di farlo cadere. Per questo cerca sponde nel Pd e in Grillo per ottenere le elezioni immediate.

Tuttavia il suo declino politico viene prima e va oltre la decadenza da parlamentare, l’interdizione dai pubblici uffici, l’affidamento ai servizi sociali. Per questo continua a praticare una «strategia dell’instabilità» attribuendo la matrice ai falchi (ma il vero falco è lui). Le elezioni a breve gli consentirebbero di giocarsi un ultimo round e di ipotecare una propria personalissima quota del Parlamento futuro: così opporrebbe una legittimazione popolare alla legittimità costituzionale (della sentenza). E l’assenza di riforme istituzionali ed elettorali lo aiuterebbero nei propositi di destabilizzazione.

Questo è la partita nella destra. Che può cambiare il terreno di gioco per tutti. Speriamo che nessuno nel centrosinistra offra sponde al Cavaliere, magari pensando di trarne occasionali vantaggi. Se prevalesse il populismo a destra anche nel dopo Berlusconi, non sarebbe una buona notizia per la sinistra. Forse neppure per Grillo, che magari potrebbe rischiare di trovarsi Forza Italia apparentata (o comunque alleata) ai Cinquestelle in Europa nell’area politica che stanno allestendo la signora Marine Le Pen e l’olandese Geert Wilders.

L’Unità 15.11.13