attualità, università | ricerca

“Ecco perchè la ricerca ci fa più ricchi”, di Giovanni Bignami

Finalmente abbiamo una risposta alla domanda: perché la società, specialmente la nostra spietata società capitalistica di oggi, accetta di finanziare una attività così astratta ed altruistica come la ricerca scientifica fondamentale? La risposta ce la dà, insieme ad una lezione di vision economica, uno scienziato americano, William H. Press, della gloriosa American Association for the Advancement of Science. Parte da una citazione di George Washington, l’uomo che più di due secoli fa vinse una guerra crudele come la rivoluzione americana, per poi diventare anche grande statista. Disse: «La conoscenza è, in ogni nazione, la base più sicura per la pubblica felicità ».Gli Usa ci hanno sempre creduto e sono oggi lan azione che Più investe, in termini assoluti, inR&D(Ricercae sviluppo).Mettendo In grafico per variPaesi la percentuale di Pil investita inR&D contro il numero di scienziati pe rmilione di abitanti, si vede una interessante correlazione. Al top c’è un gruppo con Paesi emergenti, come Corea e Singapore, nazione scandinave (Svezia, Finlandia…) e le classiche potenze industriali: Usa, Germania, Giappone. Secondo è un nutrito gruppo di nazioni industrializzate: Francia,Russia,Svizzera,UK,Spagna. Ultimo, il gruppo con il minor investimento inR&De (quindi) il minor numero di scienziati per abitante, che comprende nazioni «in via di sviluppo», come Cina, Turchia, etc. Indovinate dove si trova l’Italia, la patria di Leonardo, Galileo e Fermi? Nel terzo gruppo naturalmente, poco sotto l’Ungheria, che investe molto più di noi. Certo, si sa che i più ricchi investono di più in ricerca,ma lo sono perché ricercano di più ovvero spendono di più inR&D perché sono ricchi? Ecco la risposta di Press. Secondo AdamSmith, le nazioni diventavano ricche per tre fattori abilitanti la produzione: terra, lavoro e capitale. Oggi dobbiamo aggiungere due fattori: l’educazione e, soprattutto, la proprietà intellettuale, come ulteriori forme moderne di capitale,più importanti di fabbriche o macchinari. Questo cambia tutto: il Pil degli Usa sale di colpo di mezzo trilione di dollari all’anno quando se ne tiene conto. Perché allora gli investitori non si precipitano a investire in centri di ricerca fondamentale, luoghi di massima produzione di proprietà intellettuale? Semplice: i risultati devono essere di tutti,mentre gli investitori vogliono un ritorno privilegiato. Il beneficio delle scoperte scientifiche è un bene pubblico, e come tale deve essere finanziato soprattutto dallo Stato. Fatti due conti, nel caso degli Usa dal 1970 ad oggi, l’investimento pubblico in ricerca è stato responsabile addirittura dell’85% della crescita economica di quel Paese. Fin qui la risposta di Press. Micamale. Ma attenzione: questa idilliaca reazione a catena cessa quando succede,come in Italia,ciò che in gergo si chiama la tragedia del prato in comune. In un villaggio può esistere un pezzo di terra di proprietà comune, dove tutti possono mandare le proprie pecore a pascolare (o i ricercatori a ricercare) e dal quale quindi tutti traggono benefici (formaggi pecorini o proprietà intellettuali).Ma se nessuno si preoccupa di innaffiare il prato comune (pagare le tasse), perché tanto lo fanno gli altri, dopo poco, fine dei formaggi. C’è un rimedio? Sì, per fortuna, anzi tre. Comunicare, comunicare, comunicare. Cioè riuscire a spiegare ai proprietari delle pecore che i ricercatori non sono solo dei sognatori idealisti che mangiano l’erba di tutti,ma che rappresentano il miglior investimento per la qualità della vita dei loro figli. Per loro sì che vale la pena di mantenere verde il prato comune.

La Stampa 17.11.13