ambiente, attualità, cultura

“La bellezza tradita della mia Sardegna così abbiamo consumato ogni speranza”, di Marcello Fois

Io sono venuto al mondo perché mio padre e mia madre avevano una prospettiva di vita abbastanza stabile da potersi permettere un figlio. Erano gli anni Sessanta. Si ragionava in questi termini allora. Mio padre aveva esperienza di carpentiere, ed era scolarizzato. Mia madre era stata in continente, aveva studiato da puericultrice. Abitavano in Sardegna quando abitare in Sardegna significava vivere altrove, ma non se ne accorgevano. Abitavano a Nuoro, in una città che era ancora un paesone, e che confinava armonicamente con la campagna.
Qualche anno prima, da ragazzo, mio padre aveva lavorato per la Fondazione Rockfeller, era stato cioè uno di quei guardiani splendenti, armati di pompe al piretro, che avevano contribuito a liberare le coste della Sardegna dall’odiosa zanzara culex portatrice di malaria. Quei viaggi di lavoro cambiarono la vita di mio padre e anche, in seguito, la mia vita. S’innamorò perdutamente della sua terra, come non gli era mai successo, fino alla commozione. Le spiagge erano smaglianti allora, il mare era puro cristallo. Tutto era reso meraviglioso dallo sguardo della giovinezza. A ogni ritorno raccontava di una cala, di una baia, di un passaggio fra gli oleandri. E ogni volta prometteva di portarci mia madre. La stagione del loro innamoramento coincise in tutto con l’apice della purezza e dello splendore. Penso che mio padre pensasse a quanto era stato fortunato di amare una donna bellissima in una terra bellissima.
Io sono nato qualche tempo dopo. E da subito sono stato educato a sentirmi parte della natura che mi circondava. I miei si erano amati in mezzo alla bellezza e pensarono di amarmi insegnandomi a coltivare la bellezza. Spessissimo si organizzavano gite in campagna che da casa nostra si poteva raggiungere agevolmente a piedi; ed eravamo l’unica famiglia di tutto il quartiere che avesse l’abitudine di passare le vacanze al mare. Nei riservati barbaricini quell’abitudine attecchì più tardi. Così si partiva si caricavano le vettovaglie e si raggiungeva la spiaggia. Il paese costiero era dimesso, lindo, come disegnato dai bambini. Eravamo gli unici “cittadini” che si spingessero fino a quelle zone. Ci mostravano i terreni a mare sorpresi che ci piacessero a loro sembravano solo zolle sterili, i patrimoni formali per le figlie zitelle. Ai maschi di famiglia spettavano i terreni buoni, quelli in altura, da pascolo. Negli anni quell’abitudine ha prodotto le zitelle più ricche del Mediterraneo. Un giorno a mio padre proposero la vendita di un terreno a Ottiolu per cinque lire al metro quadro ed egli rifiutò perché certo amava la meravigliosa bellezza di
quei posti, ma non pensava che avessero una prospettiva.
E questo è il motivo per cui per vivere devo fare lo scrittore. Esisteva una gratuità in quella bellezza che oggi si è definitivamente consumata, ma credo derivi dal fatto che in pochissimi anni il brutto ha totalmente preso il sopravvento. È stato un processo lento ma inesorabile. Erano gli inizi degli anni Ottanta quando mio padre mi propose di ripercorrere le strade della sua giovinezza, voleva che vivessi la sua meraviglia, nell’età stessa in cui lui l’aveva vissuta. Ma più che dai posti, che per me erano ancora bellissimi, compresi il mutamento dagli occhi di mio padre. A lui quei posti sembrarono improvvisamente cambiati, ma non, come si potrebbe pensare, perché il suo sguardo era cambiato, ma perché in quella natura si erano innestate le prime, costruzioni. Erano case spudoratamente in riva al mare, spesso lambivano la spiaggia. Erano alberghi imponenti a due passi dalla battigia. Erano edifici che si opponevano allo sguardo con arroganza. La sicumera dei pionieri che godevano di una completa deregulation.
I paesi costieri, ora presi d’assalto dal turismo di massa, parvero improvvisamente disegnati da geometri ripetenti. Quei terreni in altura si trasformarono da miniere d’oro a territori di massacro: si guadagnava di più con due giorni di affitto che con un mese di pastorizia. Nello sguardo di mio padre imparai a riconoscere la paura per una mutazione antropologica che ci stava afferrando, che stava spostando il nostro baricentro di sardi dall’identità vera a quella presunta, dalla memoria al folk, dall’autentico alla copia. Mio padre mi confessò di sentirsi tradito e io da quella confessione non sono mai più riuscito a liberarmi neanche adesso che le sue paure apparentemente incomprensibili si sono realizzate in tutta la loro drammaticità.
Credo che allontanarci dalla passione di quella bellezza semplice sia stato l’errore fatale. Perché oggi, che ogni possibilità di salvezza pare consumata, si vorrebbe ritornare a quell’infanzia lontana e irraggiungibile che ci faceva vivere la meravigliosa e delicatissima complessità del nostro territorio senza che ne avessimo una precisa coscienza. Era come respirare, era come quando ci si innamora.

La Repubblica 21.11.13