attualità, politica italiana

“Il governo difficile”, di Claudio Sardo

Il governo Letta è un campo di battaglia politica. Per di più sull’orlo di un precipizio. La sua missione è scavare le fondamenta di quel cambiamento necessario per dare un futuro al Paese. Non gli è possibile realizzare fin d’ora una vera svolta: i vincoli di austerità dell’Europa, l’assenza di una maggioranza politica, la paralisi del sistema istituzionale lo impediscono. Ma questi stessi fattori di crisi rendono molto pericoloso il ritorno immediato alle urne. Senza riforme in Italia e in Europa nuove elezioni rischiano di dare ancora un esito nullo.

Di non produrre, anzi neppure di consentire un vero cambiamento. Sarebbe drammatico per la tenuta sociale del Paese. Non a caso alle elezioni puntano da un lato chi scommette sullo sfascio, dall’altro chi è ormai rassegnato al dominio di poteri esterni al circuito democratico e cerca di cambiare solo il volto di qualche leader (pensando di trarne vantaggi personali o corporativi).

La sterzata che si chiede al governo consiste dunque nell’indicare in modo esplicito, e con atti concreti, la marcia di avvicinamento a una nuova frontiera. Il passaggio all’opposizione del partito berlusconiano (che dovrebbe essere sancito con il voto sulla legge di Stabilità, o subito dopo con la decadenza del Cavaliere da senatore) offre una possibilità ma, bisogna dirlo, costituisce anche un problema. Al di là della maggiore fragilità dei numeri parlamentari, il problema è nella società. In questa società impaurita, impoverita, lacerata si sta coagulando una forza trasversale, che potrebbe trovare i suoi propellenti nell’avversione all’euro e nella sfiducia verso i poteri costituzionali. Ci rendiamo conto che alle prossime elezioni europee avremo per la prima volta una campagna apertamente ostile all’Europa, sostenuta da Grillo, dalla Lega e da Forza Italia? Ci rendiamo conto che questo può cambiare in profondità le aspettative del Paese, anche perché fuori dai nostri confini altri movimenti anti-europei, populisti, xenofobi stanno conquistando spazi fino a ieri impensabili? E ci rendiamo conto che la campagna contro l’Europa poggia su difficoltà reali, su politiche sbagliate, su quella dottrina dell’austerità che i progressisti denunciano da tempo come la causa della crisi (insieme ormai all’intera comunità degli economisti), ma che ancora non viene corretta?

Sappiamo che la fine dell’euro sarebbe un trauma dalle conseguenze sociali devastanti. Ma le politiche di bilancio continuano a essere condizionate da vincoli eccessivi, le politiche industriali e commerciali da disparità intollerabili, le politiche del credito da timori di collasso finanziario che inibiscono il sostegno allo sviluppo. La prima frontiera del governo Letta è il cambiamento delle politiche europee. Se Bruxelles non cambia rotta, soffocherà anche l’europeismo dell’Italia. Cambiare politica vale molto di più che cambiare il volto di un leader. La sinistra ha molto da dire. A meno che non abbia rinunciato a essere sinistra, e si sia acconciata a correttrice di bozze del pensiero unico. La legge di Stabilità, in fondo, è solo un piccolo passo. Forse troppo piccolo. Mentre pesa, eccome, la palla al piede dell’Imu azzerata anche ai più ricchi: un lascito demenziale di Berlusconi cui non si è reagito con la dovuta fermezza. Ma ora guai a perdere i titoli per ottenere la «clausola di flessibilità» (gli investimenti extra-deficit), e soprattutto per giocare al meglio la partita della presidenza italiana dell’Ue nel secondo semestre del 2014.
Poi c’è un secondo punto di crisi, e dunque di attacco. Riguarda le istituzioni. O meglio, le riforme indispensabili per evitare la resa della democrazia. La nostra è una crisi costituzionale: è inutile negarlo. Una crisi «di regime», scriveva ieri Alfredo Reichlin. Facendo leva sulle linee di frattura, provocate dal fallimento della seconda Repubblica, le forze populiste attaccano frontalmente il Capo dello Stato al fine di colpire il governo, destabilizzare la legislatura, impedire ogni riforma prima delle elezioni. Sia chiaro, le scelte di un presidente della Repubblica sono tutte discutibili. E nessuno è esente da errori. Ma è clamoroso lo stravolgimento della realtà. Non stiamo slittando verso un presidenzialismo «di fatto» perché i poteri di indirizzo del Capo dello Stato sono dilatati a causa dell’insussistenza di una maggioranza politica. A spingerci verso il presidenzialismo «di fatto» è stata semmai l’ideologia della seconda Repubblica, che ha tentato di trasformare l’elezione del Parlamento nell’elezione del capo del governo, ingannando i cittadini e alla fine sottraendolo loro (con il Porcellum) persino il potere di scegliere i deputati. Il patronage di Napolitano sul governo Letta resta invece espressione del sistema parlamentare voluto dai costituenti. La «fisarmonica» dei poteri del Quirinale ha forse raggiunto la sua massima apertura, ma la legittimazione del governo, la sua azione e la sua responsabilità sono tutte dentro i confini della Costituzione (come dimostrano i precedenti di Einaudi, Gronchi, Pertini, Scalfaro, che ebbero a promuovere altri governi privi di maggioranza certa). E questa è oggi la linea di resistenza del sistema parlamentare contro chi invece il presidenzialismo (esplicito o surrogato) lo vuole davvero.

Anche in questo caso, lo strappo di Forza Italia incrementerà la massa critica dell’opposizione di sistema. Non farà fatica Berlusconi ad accodarsi a Grillo negli attacchi al presidente della Repubblica. L’obiettivo immediato è il governo, ma l’orizzonte è la rottura degli equilibri costituzionali. Per questo le riforme in questa legislatura (superamento del bicameralismo perfetto e sfiducia costruttiva) sono probabilmente l’ultima chance per difendere i capisaldi della Costituzione dalla deriva presidenzialista. Un fallimento delle riforme aprirebbe invece pericolosi scenari di semplificazione istituzionale: la paralisi sollecita soluzioni autoritarie che travolgono i limiti e i contrappesi.

Queste le aperte battaglie del (nel) governo Letta. La nuova classe dirigente del Pd dovrà mettere in gioco se stessa già in questa legislatura, mostrando quale sia la sua idea di nazione e di sinistra. Non è scritto da nessuna parte che il governo Letta debba continuare per forza fino alla fine del 2014. Ma sarebbe molto grave se qualcuno nel Pd, per calcolo di parte, si vestisse da apprendista stregone, cercando alleati in chi vuol mandare gambe all’aria l’Europa e il sistema parlamentare.

L’Unità 23.11.13