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“Un bollino di qualità per tutta la TV pubblica”, di Giovanni Valentini

È grazie a Mike (Bongiorno), ma anche ad altre trasmissioni di intrattenimento fatte con molta cura, che abbiamo imparato ad usare l’italiano parlato. (Tullio De Mauro in “La lingua batte dove il dente duole” — Laterza, 2013 — pag. 43) Di certo l’omologazione è avvenuta con la televisione. (Andrea Camilleri, ibidem). Quando si vuole difendere il ruolo e la funzione del servizio pubblico radiotelevisivo, non c’è esempio migliore di quello della lingua: cioè dell’unificazione e omologazione del linguaggio che la tv di Stato ha favorito fin dalla sua fondazione in Italia. I telespettatori più avanti negli anni ricorderanno “Non è mai troppo tardi”, la trasmissione condotta dal maestro Alberto Manzi che aveva per sottotitolo “Corso di istruzione popolare per il recupero dell’adulto analfabeta”. E fa bene a richiamarsi oggi a quel modello il direttore generale della Rai, Luigi Gubitosi, quando immagina un programma per “l’alfabetizzazione digitale”.
Ma il servizio pubblico — come sosteneva già sir John Reith, il fondatore della mitica Bbc inglese — deve provvedere, oltre che a “informare ed educare” il pubblico, anche a “intrattenerlo”. Da “Lascia o raddoppia?” di Mike Bongiorno, appunto, fino a “Quelli della notte” e “Indietro tutta” del geniale Renzo Arbore, passando per tante altre trasmissioni di successo, questo genere fa parte integrante della stessa missione della Rai. Non avrebbe senso, perciò, escludere ora l’intrattenimento dai cosiddetti “generi predeterminati” in vista del nuovo Contratto triennale di servizio fra l’azienda e lo Stato che prelude, a sua volta, al rinnovo della Concessione del servizio pubblico nel 2016: a meno che si punti in realt à al suo “spacchettamento”, magari per privilegiare gli interessi della tv commerciale sul piano degli ascolti.
Per le medesime ragioni, appare improprio e dannoso imporre un “bollino di qualità” per distinguere i contenuti prodotti con i proventi del canone d’abbonamento da quelli prodotti esclusivamente con i ricavi pubblicitari. A parte il fatto che l’intera programmazione è o dovrebbe essere in linea con il servizio pubblico, in questo modo si rischierebbe di avviare surrettiziamente “una prima divisione in due dell’azienda”, come ha sostenuto di recente davanti alla Commissione parlamentare di Vigilanza Vittorio Di Trapani, segretario dell’Usigrai, il sindacato interno dei giornalisti. È stato lui stesso a citare in proposito la lettera inviata alla presidente della Rai, Anna Maria Tarantola, con cui l’Ebu (European Broadcasting Union) esprime la sua netta contrarietà a una tale ipotesi, sottolineando che non è prevista da nessun servizio pubblico europeo rappresentato da questo organismo internazionale.
Diverso è il discorso della “separazione contabile”, introdotta nel 2009 dalla Commissione europea sugli aiuti di Stato, per evitare che le emittenti pubbliche facciano concorrenza a quelle private in settori diversi dalla loro missione principale o che siano troppo sovvenzionate rispetto agli obblighi di questa missione. Qui si tratta, piuttosto, di assicurare l’equilibrio e la trasparenza del mercato. Tant’è che la “separazione contabile” è diventata ormai pratica corrente ed è stata adottata da tutti i servizi pubblici europei, compresi quelli che sono finanziati interamente con risorse statali: già dal 2005, su delibera dell’Autorità di garanzia sulle Comunicazioni, il bilancio della Rai è stato suddiviso in tre distinti aggregati contabili (aggregato di servizio pubblico, aggregato commerciale e aggregato servizi tecnici).
Un “bollino di qualità”, semmai, dovrebbe essere applicato a tutti i programmi della tv di Stato — d’informazione, di approfondimento e anche d’intrattenimento — per esigere e certificare un livello di contenuti adeguati al suo ruolo e alla sua funzione. Fino a quando anche il nostro servizio pubblico non avrà una “governance” indipendente dalla politica, e magari non verrà finanziato soltanto dal canone per essere sottratto alla “schiavitù dell’audience”, la Rai rimarrà esposta comunque alle influenze e interferenze della partitocrazia. In queste condizioni, la migliore autodifesa è quella del rigore finanziario e amministrativo, della professionalità e dell’autonomia aziendale.
È senz’altro una buona idea quella indicata nell’articolo 23 del nuovo Contratto di servizio che, in attesa del rinnovo della Concessione, prevede una consultazione pubblica per interpellare tutti i soggetti sociali, sull’esempio della Royal Charter della Bbc. Per passare finalmente dalla Rai dei partiti alla Rai dei cittadini, occorre una grande mobilitazione popolare come quella sull’acqua e sugli altri beni comuni. Ma intanto la politica — di destra, di centro o di sinistra — deve fare un passo indietro.

La Repubblica 23.11.13