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“Fisica o sessuale: una donna su tre ha subito violenza”, di Carlo Buttaroni

Provate a immaginare un mondo cupo, dove il terrore non è qualcosa d’improvviso e occasionale ma ripetitivo, costante, ossessivo. Immaginate di vivere l’incubo di una violenza che non viene da «fuori», ma nasce e si consuma all’interno dei luoghi più familiari e rassicuranti. E spesso ha un volto noto, consueto, abituale. Immaginate una violenza che esplode senza preavviso, senza ragione. Provate a pensare cosa vuol dire avere costantemente paura, vivere una crescente in- sicurezza che si trasforma in ansia. E immaginate di perdere l’autostima, il senso della realtà, la capacità di definire quello che succede e dargli un significato. Provate a immaginare l’angoscia di un’esistenza parallela, opaca al mondo esterno; di provare vergogna per gli abusi subiti e custodire il segreto di violenze indicibili, perché il racconto può non essere creduto, oppure minimizzato e banalizzato proprio da quelle persone che dovrebbero rappresentare la vostra rete di protezione. Provate a vivere il senso d’impotenza, la depressione, la tachicardia, l’insonnia. E provate ad ascoltare il silenzio interno, l’ansia costante che si annida progressivamente nell’anima fino a diventare una presenza inquietante che rende impossibile ogni movimento, svuotando ogni possibilità di leggere la realtà per quella che è, senza riuscire a fronteggiarla e contrastarla. Provate a sentirti vuoti, stanchi, privi di obiettivi, presi in ostaggio da un nemico oscuro che vive sotto il vostro stesso tetto o nell’abitazione accanto.

ACCANTO A NOI

Per quanto possiate immaginare tutto questo, non sarà mai abbastanza. Perché l’orrore delle vittime della «guerra invisibile» che si consuma ogni giorno è inimmaginabile. Vittime che non sono poi lontane come si può credere. Sono accanto a noi, anche se non vediamo i segni delle ferite inferte nel profondo. Vittime di una violenza che si consuma prevalentemente tra le mura domestiche. Sono sette milioni le donne italiane che hanno subito violenza fisica o sessuale. Quasi una su tre. Ma è una stima approssimata per difetto, considerato che solo una minima parte dei reati arriva all’autorità giudiziaria. Basti pensare che le denunce per violenza sessuale rappresentano meno di un decimo degli abusi sessuali subiti dalle donne.

Un dramma invisibile e impalpabile, dalle forme nascoste e spesso difficili anche da conte- nere all’interno di perimetri giuridici certi. Almeno all’inizio, come quando si esprime sotto forma di una sottile e insidiosa pressione psicologica. Un’atmosfera di sopraffazione e di minaccia che si insedia poco alla volta nella quotidianità. E si riflette nella paura «di farlo arrabbiare», di deluderlo, di sentirsi «stupida» nel contraddirlo, facendosi carico della sua aggressività. Ed è solo il principio di un percorso che distrugge la vita.

Se pensate che gli autori delle violenze siano brutti, sporchi e (apparentemente) cattivi, vi sbagliate. Nel quotidiano hanno un comportamento socievole e seduttivo, ma giocano con le emozioni degli altri per ottenere il raggiungi- mento di controllo e potere. Si credono superiori, vogliono che gli altri li riconoscano come tali e hanno bisogno di una costante ammirazione e attenzione. Non cercano amore, di cui non conoscono il significato, ma rassicurazione nell’immagine idealizzata di loro stessi. Per questo è insopportabile che una donna li possa semplicemente criticare. E nel momento in cuiuna donna manifesta in sofferenza, rifiuto oppure minaccia l’abbandono, esplodono in una rabbia devastante che può sfociare in qualsiasi cosa. Persino in omicidio. O femminicidio, come si dice oggi.

Sarebbe un errore immaginare che le donne che subiscono violenza siano persone deboli e predisposte a subire la loro condizione di vittime. Perché fragili lo diventano dopo. E spesso fino al punto di non saper riconoscere ciò che hanno subito. Le emozioni negative e i vissuti legati alla loro condizione sono talmente difficili da accettare che le spingono a non rivelare a nessuno quello che subiscono quotidianamente. Spesso a negarlo. Per questo raramente le vittime denunciano la violenza subita ma cerca- no di controllare il dolore, eliminandolo o minimizzando l’intensità di quello che provano.

La sofferenza più grande sta qui, nel rimanere immobili, senza capire come mai si è portate ad accettare una situazione che non può essere tollerata.

Si è spesso cercato di comprendere per qua- le motivo le donne che subiscono violenza in moltissimi casi non lo denunciano e non cerca- no aiuto. Ma più interessante è chiedersi per quale motivo i casi di violenza «sommersi» sia- no così «invisibili» al contesto familiare e ancor più sottaciuti dal contesto sociale che circonda le vittime. Si tratta d’ignoranza del fenomeno, o, invece, di una sorta di accettazione sociale, in particolare quando la violenza si consuma tra le mura domestiche?

Vi è tutta una seria di pregiudizi e stereotipi che spiega perché, nonostante la grande sofferenza che vivono, le donne impieghino molto tempo a cercare una via di fuga rispetto alla situazione in cui si trovano, tanto che alcune denunciano il compagno dopo molti anni di violenze.

ISOLAMENTO PROGRESSIVO

D’altronde la costellazione di ostacoli che si ritrovano davanti è difficile da superare e non tutte possiedono le risorse necessarie (non solo quelle economiche) per intraprendere un cambiamento da affrontare in solitudine. Perché nel frattempo, infatti, le donne si ritrovano sole e senza amici, avendo subito anche un progressivo isola- mento dal contesto di relazioni affettive. E più il partner ha un’identità sociale forte e gode di considerazione, più è difficile uscire dalla condizione in cui sono prigioniere, perché di fronte al consenso sociale di cui gode l’uomo, non riescono a far coincidere l’immagine pubblica del partner con quella privata. Il favore di cui gode l’uomo all’esterno, nell’ambiente in cui vive, mette costantemente in dubbio la condizione di vittima della donna, esponendola a ritorsioni e al rischio di un ulteriore isolamento sociale. L’emarginazione delle vittime è il miglior alleato dei violenti, e anche se è una guerra invisibile, voltarsi dall’altra parte costituisce una responsabilità da cui nessuno è immune. Vale la pena tenerlo presente perché prima che finiate di leggere queste parole, altre dieci donne subiranno violenza fisica o sessuale.

L’Unità 25.11.13

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Un lunedì da leonesse per fermare la violenza”, di MARIELLA GRAMAGLIA

Proclamata dall’Onu nel 1999, la «Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne» si celebra in Italia dal 2005. Il 25 novembre fu scelto perché in quella data, nel 1960, le tre sorelle Patria, Minerva e Maria Teresa Mirabal, oppositrici del dittatore dominicano Trujillo, vennero sequestrate, torturate e uccise. In questa giornata, in Italia, si svolgono incontri, si aprono mostre, si svolgono spettacoli a tema. In sedi diverse, dalla Camera dei Deputati, dove alle 17, alla presenza della Presidente Boldrini, una parlamentare di ogni gruppo (tranne i 5 Stelle) legge un brano del libro «Ferite a morte» di Serena Dandini, all’Umanitaria di Milano, dove 44 fotografi partecipano alla mostra «Chiamala violenza, non amore». Oggi il Campidoglio, a Roma, viene illuminato di rosso, colore simbolo dell’iniziativa, e in tutta italia esce «La moglie del poliziotto», film premiato all’ultimo Festival del Cinema di Venezia, che affronta la tematica della violenza in famiglia.

Oggi scarpe rosse e vuote nelle piazze d’Italia. Rosse come il sangue o come la rabbia? E vuote come le donne che non potranno più calzarle per muoversi nel mondo? Ogni anno, soprattutto il 25 novembre, giornata mondiale contro la violenza, se ne tiene la contabilità: siamo a quota 182.

Rosso è il lutto quando si fa grido collettivo, rosso è la ribellione degli oppressi che la sinistra al neon azzurro bianco e verdino ha messo nel baule dei giocattoli vecchi, rosso è anche trasgressione e divertimento al piede di un ragazza. Rosso è vita.

Eppure il 25 novembre, con un segno rosso negli abiti, si è chiamate a custodire nel cuore le donne che non possono più difendersi.

Ma è solo questo il significato della giornata, una specie di due novembre ritardato? Le campagne di comunicazione, come non osassero ferire il dolore delle congiunte, oppure sapessero solo esprimere violenza anche se si battono contro di essa, usano quasi sempre la stessa grammatica.

La Yamamay invita le ragazze a ribellarsi – «Ferma il bastardo», proclama – ma per ora è lui a fermare un bel visino dalla pelle chiara nell’eterna istantanea dell’occhio nero. La regione Liguria, per promuovere una giornata di studio, sceglie una schiena femminile nuda e liscia stampigliata con un tatuaggio: «Fragile». Un donna è come un pacco delicato da consegnare a uno spedizioniere.

Il Comune di Torino stilizza un viso femminile con pesanti tratti neri, evocando chiaramente l’angoscia dell’urlo di Munch. Napoli sceglie un ever green, una donna discinta, gettata a terra, con i capelli scomposti. La Cgil si incarta nel simbolismo: croci bianche su fondo nero che, nella parte finale del manifesto, si rovesciano in simboli femminili accompagnati dall’invocazione «Vive le donne!».

Tutto è meglio del silenzio e la giornata mondiale contro la violenza sulle donne, a lungo relegata nel nostro Paese fra i rituali delle Nazioni Unite, non ha mai avuto tanta eco come quest’anno. Ottima cosa. Una signora che se ne intende, Anna Maria Testa, però sostiene che una pubblicit à, per essere efficace, deve avere humour, leggerezza e pertinenza. E chiarezza, aggiungerei, soprattutto se si tratta di comunicazione pubblica.

Allora, con chiarezza, cosa vogliamo? Che le donne siano più libere, che rifiutino la posizione della vittima, che si sottraggano alla coazione a scambiare la brutalità per amore e a sopportarla più e più volte. E vogliamo anche che gli uomini che conoscono l’alfabeto dei sentimenti la smettano di balbettare, si facciano protagonisti, gridino forte che neanche loro ci stanno, o che se ci sono cascati una volta non vogliono perseverare e aiutino gli altri uomini aiutando se stessi, se hanno la maturità per farlo.

Cecilia Guerra, viceministra con delega alle pari opportunità, è lieve e chiara. Sceglie una coppia, lui con il viso coperto da una scritta («La violenza ha mille volti, impara a riconoscerli»), lei che sfodera un sorriso ironico. E gli slogan: «Se il tuo sogno d’amore finisce a botte, svegliati»; oppure: «Sai già che picchia, quando picchia alla porta non aprire». E la pertinenza: il numero 1522, quello cui le donne possono chiedere aiuto, scritto in bell’evidenza.

Meno lievi, ma altrettanto pertinenti sono gli autori che hanno partecipato alla scrittura collettiva di un libro straordinario: «Il lato oscuro degli uomini», Ediesse 2013. Nel 2006 un gruppo di giovani maschi aveva cominciato a spendersi portando il 25 di novembre un fiocco bianco sulla giacca, poi è nata la campagna «Noi no!», con volti maschili noti che dichiaravano il loro rifiuto della violenza, oggi – come il libro racconta – c’è un mondo che si muove: gruppi di auto aiuto, interventi nelle carceri, programmi che possono sostituire parte della carcerazione, progetti di prevenzione. Tutti sorretti dall’energia di professionisti e volontari maschi che ci credono e lo dimostrano.

Stasera a Roma, alla Pelanda di Testaccio, Snoqfactory, un laboratorio che raccoglie molte giovani artiste, ha organizzato una performance perché le donne non si sentano «vittime, irrilevanti e perdenti». Lo ha chiamato «Un lunedì da leonesse». Humour, leggerezza e, auguriamocelo, anche pertinenza.

La Stampa 25.11.13

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Violenza: 236 donne chiedono aiuto

Preoccupanti i dati modenesi nel 2013, crescono i maltrattamenti e il numero delle persone seguite dalle associazioni. Sono 2.403 le donne che, avendo subito violenza, hanno telefonato o si sono presentate direttamente a una casa o a un centro antiviolenza del coordinamento dell’Emilia-Romagna dall’1 gennaio al 31 ottobre 2013: sul totale, 2.022 (l’84,1%) rappresentano nuovi contatti, mentre 381 (il 15,9%) sono donne già inserite in un percorso. E Modena, purtroppo, fa la sua parte con ben 267 persone che sono state “prese in carico” ovvero seguite e assistite dalla Casa delle donne contro la violenza. Di queste ben 236 sono stati i contatti attivati quest’anno, ovvero donne che spaventate per le violenze subite, hanno chiesto aiuto. Sono i dati raccolti dal coordinamento delle case delle donne e dei centri antiviolenza della Regione ‘Emilia-Romagna presentati in vista della giornata odierna del 25 novembre, “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”. Il coordinamento è composto da 11 strutture oltre al centro delle donne contro la violenza di Modena sono rappresentate tutte le province da Piacenza a Rimini (sul territorio sono presenti altre 6 realtà che, pur non facendo monitoraggio dei dati, in maniera differenziata offrono servizi di ascolto, accoglienza, consulenza e formazione). Il dato regionale di questo anno è in preoccupante crescita rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, quando erano state 2278 donne a subire violenza e a chiedere aiuto (per poi raggiungere a fine dicembre 2012 quota 2493 donne accolte, di cui 2138 nuovi contatti). Quando si parla di violenza sulle donne e femminicidio, spesso ci si dimentica di sottolineare che a subirne le conseguenze non sono solo le donne e che l’impatto sulla società civile è più vasto. Stando ai datiraccolti fino al 31 ottobre 2013, il 48% dei figli/e delle donne accolteha subito violenza, per un totale di 1191 minori. E i femminicidi nella nostra provincia sono stati già 10 e altrettanti i femminicidi. Il profilo delle donne che chiedono aiuto racconta la trasversalità e la complessità del fenomeno. Si tratta di donne italiane per il 63,1% dei casi (le straniere costituiscono il restante 36,9%). L’88,1% di loro ha subito violenza psicologica, il 63,2% è stata vittima di violenza fisica; seguono i casi di violenza economica (38,1%) e violenza sessuale (13,8%). Quanto ai bisogni e alle richieste manifestate dalle donne durante il primo colloquio con le operatrici dei centri, la maggior parte di loro ha bisogno di informazioni e richiede un secondo colloquio per sfogarsi ma anche per ricevere consigli sulle strategie da adottare per uscire dalla situazione di violenza. Il 23,2% di loro necessita di consulenza/assistenza legale, il 6,8% ha bisogno di ospitalità immediata e il 6,7% richiede una consulenza psicologca. Interessante notare come solo nello 0,3% dei casi le donne abbiano richiesto un intervento terapeutico sull’autore violento. Si mantiene costante il dato relativo al numero delle donne ospitate nelle case-rifugio: 111 nuove donne, e con loro 124 minori, sono stati costretti ad abbandonare la propria casa perché in pericolo di vita (nei primi dieci mesi del 2012, erano stati ospitate nelle case-rifugio 121 donne e con loro 124 minori).

La Gazzetta 25.11.13