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“Quel volto deturpato bandiera delle donne”, di Michele Serra

Fortunati i trecento studenti di Parma che ieri hanno potuto vedere e ascoltare Lucia Annibali, sfregiata con l’acido lo scorso aprile per volontà di un ex fidanzato respinto, un uomo così violento e così vigliacco da prezzolare, per quell’orribile gesto, due sicari albanesi.
Fortunati quei ragazzi perché il volto di Lucia, ricomposto giorno dopo giorno con una fatica, una dignità, una costanza, una sopportazione del dolore davvero femminili, sventolava in quell’aula come una bandiera. «Voglio ringraziare il mio volto ferito — ha detto Lucia — perché mi ha insegnato a credere in me stessa. A essere padrona di me, del mio corpo e dei miei sentimenti».
Tra pochi giorni quel volto fronteggerà in tribunale il suo carnefice. Colui che lo voleva cancellare (perché non merita di esistere, per il maschio padrone, cioè che non gli appartiene) se lo vedrà di fronte.
NON sappiamo se proverà rimorso o vergogna per il suo gesto atroce, tra l’altro mutuato di recente, qui da noi, da culture arcaiche e remote, una tortura importata sadicamente dallo spazio e dal tempo come se non bastasse, alla violenza sulle donne, il vasto armamentario già a disposizione. Sappiamo, però, e lo sa soprattutto Lucia, che la sopravvivenza di quel viso, il suo resistere allo scempio, il suo lento ritrovare espressione e dolcezza, e soprattutto il suo orgoglioso mostrarsi nonostante le ferite, e parlarne, e rivendicare identità e autonomia anche “grazie” a quel calvario, a quei lineamenti bruciati, segna la rovinosa sconfitta del suo oppressore.
Il gesto del vetriolo o dell’acido o dello sfregio da lama contiene una precisa volontà di annullamento: «Tu non devi più esistere. Esistevi solo in quanto mia. Non puoi e non devi esistere in quanto tua. Ora dunque io ti cancello. Vivrai nascosta. Vivrai nella vergogna di mostrarti». Il discorso con il quale ieri Lucia Annibali ha dato un significato palpitante, emozionante, non rituale alla giornata mondiale contro la violenza sulle donne, ribalta addosso all’oppressore il suo odioso, patologico pregiudizio. «Io esisto, ed esisto a tal punto che la ferita che mi hai imposto non solo non mi fa vacillare, ma aumenta la mia coscienza di appartenermi, di essere mia, e di esserlo nonostante te». Trionfa, nelle parole semplici e potenti che Lucia ha rivolto a ragazze e ragazze che difficilmente lo dimenticheranno, il vecchio “io sono mia” che ha animato per generazioni il movimento delle donne. E che, nella sua ineludibile brevità, dice assolutamente tutto, e dice quello che fa impazzire di paura e di rabbia i maschi impreparati alla propria vita e alla libertà degli altri, soprattutto delle altre. A compimento del suo percorso di liberazione, Lucia ha anche voluto aggiungere due parole sull’amore, abusatissimo alibi di molti picchiatori, stalker, persecutori, carcerieri, torturatori di femmine. «Esiste solo un tipo di amore: quello buono, quello che ti rende felice e migliore. L’amore, come l’amicizia, è una relazione terapeutica, che ti arricchisce e ti fa crescere». Non è amore l’abuso, la costrizione, la gelosia patologica, non è amore lo spirito proprietario, il dispotismo sentimentale. Non è amore ciò che rende infelici e peggiori. L’invito, rivolto ai ragazzi presenti, di essere «gentili e affettuosi » con le ragazze, e alle ragazze di «scegliere il rispetto di voi stesse e sentirvi libere», sicuramente non è caduto nel vuoto, data la storia umana che quell’invito ha prodotto, e data la persona che quella storia incarnava.
Il presidente Napolitano ha nominato l’avvocato Lucia Annibali cavaliere al Merito della Repubblica. Raramente un’onoreficenza è parsa più carica di significato e di valore. Possa il maschio padrone, anche se rappresenta il grado zero dell’umanità, riuscire un giorno a misurare il valore, l’intelligenza, il coraggio di questa bellissima donna. E a esserne felice invece che terrorizzato. Ammirato invece
che invidioso.

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“Ringrazio il mio volto ferito che mi ha insegnato a credere di nuovo e di più in me stessa”, di JENNER MELETTI

Scende il buio, su quella che è stata «davvero una bella giornata». «Tanto più importante per me — dice Lucia Annibali, colpita al volto con l’acido in una sera d’aprile — che di giornate belle in questi mesi ne ho vissuto poche ».
Quando ha saputo della sua nomina a Cavaliere?
«Stamattina mi è arrivata una telefonata dal Quirinale. L’ufficio stampa mi informava della decisione del Presidente. Che bella cosa. Per me, per la mia famiglia. E credo anche per tutte le donne che hanno subito violenza. È una notizia che dovrebbe interessare tutti gli uomini. Ci pensino su, prima di usare violenza. Se io sono diventata Cavaliere — che so, forse era meglio cavallerizza… — questo significa che la reazione alla persecuzione non è solo mia. C’è tutta una società che si ribella. La nomina è un messaggio ai violenti: state attenti, le donne non si sentono più sole».
Un viaggio a Parma, con tanti appuntamenti. Prima di tutto l’incontro con trecento studenti delle scuole superiori. Si era preparata?
«Sì, ieri sera. Pochi appunti per fissare le parole tante volte pensate in questi mesi: bisogna reagire, ci vuole il coraggio di sopportare anche l’insopportabile, bisogna ritrovare la normalità che è stata rubata… Non arrendersi mai. Mandare al mandante dell’aggressione un messaggio preciso: hai voluto cancellarmi e non ci sei riuscito. La tua malvagità alla fine non ha vinto. Era la prima volta che apparivo in pubblico. Mi sono sentita subito come a casa, ho capito che chi era lì aveva rispetto e voglia di capire».
Ha mostrato il suo volto ferito, è riuscita anche a sorridere.
«Il mio volto, ho detto, sono io. Parla di me, del mio dolore e della mia speranza. Voglio ringraziare
questo volto ferito che mi ha insegnato a credere in me stessa, a fare un salto verso la donna che ho sempre voluto essere. Oggi mi sento padrona della mia vita e dei miei sentimenti. Ho un progetto da cui ripartire per avere una vita felice».
Ai giovani ha parlato anche delle parole scritte sul blog del suo psicoterapeuta quando c’erano già le vessazioni ma ancora non era arrivata l’aggressione.
«Già allora avevo iniziato un viaggio dentro a me stessa. Il primo passo verso la guarigione è capire con chi si ha a che fare. È un passo triste ma non potevo accontentarmi di una vita tanto triste ».
Lei ha rischiato di morire, ha sofferto l’inferno. Però è riuscita a parlare anche dell’amore.
«C’erano le ragazze e i ragazzi dell’età giusta. Esiste un solo tipo di amore, quello buono, che ti rende felice, che è indipendenza e libertà. Non bisogna avere fretta, bisogna prima conoscere se stessi e poi darsi il tempo di conoscere l’altro. Il tempo passato lasciando che qualcuno ci ferisca non si recupera più».
È stata accolta da grandi applausi e commozione. Giovani e ragazze sono venuti a parlare con lei, a tu per tu.
«Mi dicevano: in bocca al lupo.
Ai ragazzi ho detto: in questo momento di follia collettiva, voi dovere scegliere di essere gentili, amorevoli verso le vostre compagne. Alle ragazze ho spiegato: se qualcosa non funziona, in un rapporto, non dovete convincervi che qualcosa non va in voi».
Una giornata lunga, con tanti appuntamenti.
«Parma è diventata la mia seconda casa. Insieme a mia mamma Lella sono stata a pranzo con il primario, Edoardo Caleffi e la sua famiglia. Stasera dormirò in albergo poi domani entrerò in ospedale. Subirò la nona operazione, su una palpebra che si abbassa troppo e danneggia l’occhio destro. La prima volta sono rimasta nel reparto grandi ustionati per più di 40 giorni. Lì ho incontrato i miei incubi peggiori, quando ero cieca e temevo che l’uomo con l’acido arrivasse per finire il suo lavoro di assassino. Ma ho trovato tanta solidarietà, con medici e infermiere che mi trattavano come una figlia. Ed è iniziata la mia resurrezione. Mi hai tolto il sorriso e la faccia — mi dicevo pensando all’uomo che non voglio nominare — ma io non cedo. E oggi sono riuscita a parlare, e a sorridere, in quella grande sala piena di persone che mi vogliono bene».

La Repubblica 26.11.13