attualità, cultura

“La menzogna della prostituzione libera”, di Sara Ventroni

Anche la Francia ha una falsa coscienza. La proposta di legge della socialista Maud Olivier, avanzata insieme al collega del centrodestra Guy Geoffroy, sull’inasprimento delle misure per contrastare la prostituzione (con multe fino a 1500 euro per i clienti) spacca l’opinione pubblica, senza troppe sfumature di grigio.
Per noi italiani dove la questione è arrivata a toccare perfino l’etica pubblica, con sentenze ancora in sospeso la polemica risulta logora, anche se simili sono i posizionamenti che ne conseguono: sedicenti libertari di qua, presunti moralisti di là.
Questa comune reductio non ci consola. Abbiamo piuttosto la prova che il tema scandalosamente più complesso della proposta di fatturazione della prestazione sessuale, come vorrebbe la Lega, per rientrare dell’evasione fiscale invece di fornire l’occasione per uno scarto di coscienza (come da noi si ebbe, il 13 febbraio 2011) si ingolfa in una diatriba grossolana, per non dire ipocrita. E si finisce per rimpolpare la solita spaccatura mediatica tra paladini delle libertà, secondo i quali la prostituzione (volontaria) rientrerebbe nella sfera del libero arbitrio ed è diritto dell’individuo disporre liberamente del proprio corpo, anche piazzandolo sul mercato come una merce qualunque; e i missionari delle buone intenzioni, quelli che potremmo dire, semplificando credono di risolvere la questione punendo i clienti ma sorvolando sul fatto che la prostituzione non è sempre un fenomeno coatto. O meglio: che l’aspetto coatto del fenomeno non riguarda solo la condizione di indigenza economica di chi offre il servizio (spesso sotto schiavitù) ma anche quella (più versatile e meno quantificabile) di chi lo richiede.
Non se ne esce per opposte fazioni. Il caso francese è però esemplare: nel dibattito c’è almeno un convitato di pietra e qualche menzogna di troppo. Proprio come da noi.
Al netto di un giudizio sulla bontà o meno della proposta di legge colpisce la falsificazione (non tutti, come l’indimenticabile escort Terry Schiavo, sono in buona fede) delle battaglie condotte finora dalle donne, per cui le sex workers di oggi sarebbero la compiuta incarnazione delle lotte di liberazione delle donne di ieri.
Il corpo che le donne hanno provato a liberare era quello della consapevolezza, non quello dell’alienazione. Era un corpo su cui si scrivono le memorie, non un codice a barre. Era il corpo desiderante, non il corpo dimenticante. Un corpo consapevole, non un’utility o un’applicazione. Le donne non si sono liberate dal dominio monopolistico del patriarcato per piazzare il loro corpo, a partita Iva, sul libero mercato. Non siamo all’accumulazione selvaggia del capitale.
La liberazione di cui hanno parlato, e parlano, le donne, è una liberazione reciproca. È l’idea di un corpo come identità, non certo come una proprietà. Un corpo che ha il suo differente, e il suo limite. Un corpo in relazione, insomma. Non certo un corpo reazionario, onnipotente.
E dunque il tema della libertà che sul corpo delle donne ancora suona e risuona, reclamando una replica dagli uomini è stato posto all’attenzione del mondo non certo bruciando il reggiseno, ma toccando il limite che si scopre sempre dentro la relazione.
Certo, le narrazioni biotecnologiche alimentano il mito, pret a porter, del corpo come protesi o accessorio. Implementabile. Da manomettere. Da mettere a frutto, con chirurgica libertà. Qualcosa di cui si dispone, come un dispositivo fornito in modo neutro al momento della nascita. Nessuna meraviglia, dunque, se per una parte del pensiero corrente, anche neofemminista, la prostituzione volontaria possa sembrare una rottura di catene. O peggio: un lavoro normale: siamo nell’etica, e nell’estetica, dei tools: ogni cosa trova ragione nell’essere strumento di qualcosa di sconfinato, profitto compreso.
Per altri però, anche se non per tutti, si tratta, invece, di un’espressione del capitalismo, con altri mezzi.
Per questo ci resta il sospetto che quando la piccola Mafalda proclamava con orgoglio «Io sono mia» non intendeva rivendicare il possesso dei mezzi di produzione. Non voleva mettersi in proprio. Non aspirava a sfruttarsi meglio, senza versare la percentuale. Voleva dire: la mia libertà ha dei limiti che il mercato non può capire.

L’Unità 30.11.13