attualità, politica italiana

“Che accadrà di tutti noi senza più il caimano?”, di Eugenio Scalfari

Quella domanda se la fanno in molti e molte e discordanti sono le risposte secondo l’appartenenza politica e il ruolo che ciascuno degli interlocutori ha avuto in passato e conta di avere nel prossimo futuro.
Alcuni mettono in dubbio che il caimano sia veramente uscito di scena e pensano che, anche se già decaduto dal Parlamento, rimane ancora in campo, conserva una piena leadership sui suoi seguaci e la manterrà per molto tempo ancora. Del resto anche Grillo è fuori dal Parlamento, anche Vendola, anche Renzi, eppure contano, eccome. È vero che Berlusconi è condannato per frode fiscale e gli altri no, ma questa differenza incide poco finché potrà mantenere il consenso di molti italiani come i sondaggi di opinione registrano.
Chi ha dedicato la propria passione politica al suo sostegno pensa addirittura che sarà ancora più forte di prima, più rispondente alla sua vocazione di lotta, e ne gode. Il tanto peggio tanto meglio risveglia la sua energia e quella dei berluscones, manderà all’inferno chi l’ha tradito e sconfiggerà le sinistre di ogni risma che ancora infettano la cara Italia e perciò: Forza Italia, la vittoria è a portata di mano e questa volta con l’esperienza del passato sarà definitiva.
Chi invece è dalla parte opposta ha una diversa valutazione dei fatti e delle loro conseguenze. Alcuni pensano, come i loro avversari, che la “caduta” sia più apparente che reale e temono che le previsioni di Forza Italia non siano purtroppo prive di fondamento. Altri invece estendono l’anatema contro il caimano a quanti da sinistra l’hanno coperto collaborando col diavolo e quindi dannandosi con lui.
Per costoro la prossima battaglia dovrà dunque esser diretta mettendo definitivamente fuori gioco le finte sinistre corresponsabili della decadenza del Paese. Ma molti infine sono convinti che una bruttissima pagina di storia sia stata finalmente chiusa e si apra il campo al riformismo democratico.
Questi sono i variegati scenari che dividono l’opinione pubblica, le forze politiche (e antipolitiche), i media, la business community e le parti sociali.
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Quanto a noi, il dissenso nei confronti di Berlusconi e del berlusconismo è stato uno degli “asset” del nostro giornale molto prima del suo ingresso in politica nel 1994. Cominciò fin dall’87, quando apparve chiaro il connubio di affari tra lui, i dorotei della Dc e soprattutto i socialisti di Craxi.
Nell’89 diventò uno scontro diretto con quella che allora fu denominata la guerra di Segrate, la conquista della Mondadori da parte della Fininvest e quello che ne derivò. La nascita di Forza Italia portò al culmine quella guerra che non fu più soltanto un contrasto aziendale ma un fenomeno devastante della vita pubblica italiana. È durata vent’anni, ora Berlusconi è fuori gioco ma il berlusconismo no, è ancora in forze nel Paese.
Non è un fatto occasionale, non è un fenomeno eccezionale mai visto prima, purtroppo è ricorrente nel nostro passato, recente ma anche più antico.
Ricordo a chi l’avesse dimenticato la polemica non solo politica ma culturale che si ebbe nel 1945 tra Benedetto Croce e Ferruccio Parri sul fascismo. Croce sosteneva che la dittatura di Mussolini era stato un deplorevole incidente di percorso della nostra storia, che aveva certamente avuto conseguenze terribili ma non si era mai verificato prima, sicché una volta terminato dopo una guerra perduta e un paese pieno di rovine, il corso della nostra storia sarebbe ripreso e la libertà avrebbe di nuovo avuto la sua pienezza.
Personalmente credo che Parri avesse ragione e Croce sbagliasse. Demagogia, qualunquismo, assenza di senso dello Stato sono altrettanti elementi che restano nascosti per lungo tempo ma non scompaiono dall’animo di molti e di tanto in tanto emergono in superficie.
Un fiume carsico che crea situazioni diverse tra loro ma legate da profonde analogie che hanno reso tardiva la nostra unità nazionale e fragile la nostra democrazia.
Berlusconi è caduto, il caimano tra un paio di mesi non ci sarà più e tanto varrebbe disinteressarsene, lasciando agli storici l’analisi e la collocazione; ma il berlusconismo non è finito e il problema affliggerà ancora per qualche tempo la nostra società, alimentato dagli altri populismi di diversa specie ma di analoga natura. Perciò la vigilanza è un dovere civico per tutte le persone e per le forze politiche consapevoli.
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Il governo Letta si presenterà in Parlamento dopo l’8 dicembre per ottenere la fiducia poiché la nascita, anzi la rinascita di Forza Italia da un lato e del nuovo centrodestra dall’altro hanno modificato la maggioranza parlamentare e quindi la natura stessa del governo.
È a mio avviso auspicabile che non vi siano rimpasti se i ministri di provenienza del Pdl confermeranno la loro scelta “alfaniana”. Il governo ha problemi ben più importanti da affrontare e Letta li ha da tempo individuati: accentuare, nell’ambito delle risorse esistenti, l’obiettivo della crescita economica e la ricerca delle coperture necessarie; le riforme istituzionali e costituzionali da effettuare; la produttività e la competitività da accrescere; la legge elettorale da modificare; l’evasione fiscale da perseguire.
Ma soprattutto la politica europea e la struttura stessa dell’Europa da avviare verso un vero e proprio Stato federale.
Quest’ultimo obiettivo è della massima importanza e noi ne siamo uno dei primi attori. Letta ha già iniziato il confronto con le autorità europee e con gli Stati membri dell’Unione, una politica che toccher à il culmine col semestre di presidenza italiana.
C’è chi sostiene che l’importanza di quella presidenza sia retoricamente sopravvalutata, ma non è così, non solo perché l’Italia è tra i fondatori della Ue ma per un’altra e ben più consistente ragione. L’ho già scritto domenica scorsa ma penso sia utile ripeterlo ricordandolo alla memoria corta di molti concittadini: abbiamo il debito pubblico più pesante d’Europa se non addirittura del mondo.
È la nostra debolezza, ma paradossalmente la nostra forza.
I default della Grecia o del Portogallo o perfino della Spagna, semmai dovessero verificarsi (ovviamente speriamo e pensiamo che non avverranno), sarebbero certamente sgradevoli ma sopportabili dall’Europa. Un default dell’Italia invece no, sconquasserebbe l’Europa intera con conseguenze negative non trascurabili perfino in Usa; il sistema bancario europeo (e non soltanto) ne sarebbe devastato.
Una catastrofe che non avverrà, ma è questa spada di Brenno che Letta può gettare sul tavolo della discussione con gli altri membri dell’Unione a cominciare dalla Germania. Fin da subito, ma il culmine di questo confronto ci sarà durante la nostra presidenza europea poiché i governi dei Paesi membri se lo troveranno di fronte istituzionalmente, visto che fissare l’ordine dei lavori spetta al presidente di turno.
Letta non sarà senza alleati. La Francia e la Spagna sono fin d’ora impegnate su questo terreno e perfino l’Olanda.
La Bce mira anch’essa a quell’obiettivo del quale l’unione bancaria rappresenta uno dei capitoli principali.
La Merkel tentenna, ma dopo la nascita della coalizione con l’Spd la situazione è cambiata. I socialdemocratici hanno lasciato nelle mani della Cancelliera la politica europea, ma hanno ottenuto l’aumento del salario minimo garantito, una politica di incentivi ai consumi e di forme nuove di sostegno sociale. Queste misure dovrebbero far aumentare la domanda interna e sono appunto gli obiettivi che la Bce persegue per migliorare l’equilibrio degli interessi bancari tra i paesi europei.
Le imminenti elezioni europee non avranno molto peso sull’evoluzione eventuale ed auspicabile della struttura istituzionale dell’Europa, ma possono avere ripercussioni negative sulla politica interna di alcuni Stati nazionali e soprattutto nel nostro e in quello francese dove il Front National per i francesi e i Cinque Stelle e Forza Italia potrebbero registrare i consensi dell’antipolitica. Ecco un altro appuntamento che impone a Letta di accelerare il passo e al Pd di dargli il necessario consenso per renderlo concretamente
efficace.
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Per chiudere questa rassegna di questioni attuali, ne segnalo ancora un paio.
Si parla con insistenza di un’imminente sentenza della Corte Costituzionale sulla vigente legge elettorale.
Accoglierà il ricorso della Cassazione che chiede lumi sulla costituzionalità del Porcellum oppure si dichiarerà incompetente trattandosi di un tema esclusivamente parlamentare? I giuristi sono discordi. Alcuni ritengono che la Corte si dichiarerà incompetente. Per quel che vale, concordo con questa tesi. La Corte non può stabilire quale debba essere lo strumento corretto con il quale si registra la volontà del popolo
sovrano poiché manca un appiglio scritto nella Costituzione. Tanto meno può ledere le prerogative del Parlamento. Spetta ai cittadini eletti (sia pure sulla base di una legge abnorme) correggerla, cambiarla, farne una nuova, non alla Corte. Con Forza Italia nel governo ogni correzione sarebbe stata ed è stata respinta, ma una rappresentanza parlamentare diversa come l’attuale può riuscire in questa impresa. Il governo da parte sua può facilitare l’accordo presentando per l’approvazione parlamentare un suo disegno di legge.
Il secondo tema è stato sollevato dalla Corte dei conti, che chiede anch’essa l’intervento della Consulta. Riguarda le varie leggi che, dopo il referendum negativo sul finanziamento pubblico dei partiti, lo reintrodussero camuffandolo come rimborso ai gruppi parlamentari delle loro spese elettorali.
Il governo Letta ha già cancellato questo stato di cose abolendo con due anni di transizione l’erogazione di denaro pubblico e affidando il finanziamento dei partiti al sostegno privato, ma la Corte dei conti mette in causa il passato e si rivolge alla Consulta.
Sembra assai dubitabile che la Consulta risponda positivamente a questa chiamata in causa. Se alcuni gruppi parlamentari, o anche consigli regionali, hanno usato quei fondi per scopi privati e dunque illegittimi (ed è purtroppo ampiamente avvenuto) si tratta di reati di competenza della magistratura ordinaria. Ma la Consulta non sembra possa cassare leggi votate dal Parlamento ancorché sostanzialmente violino il risultato referendario il quale a sua volta abolì il finanziamento ai partiti ma non lo sostituì con un nuovo sistema. I referendum in Italia non hanno poteri positivi ma soltanto di abolizione. Dopodich é resta un vuoto che spetta al Parlamento colmare anche se spesso lo colma poco e male.
In conclusione c’è molta strada da fare. Speriamo che gli italiani brava gente — come un tempo si diceva con autoironia spesso giustificata — dimostrino ora d’esser brava gente sul serio e ogni volta che spetti a loro di decidere lo facciano facendo funzionare la testa e non la pancia.
Berlusconismo e grillismo in questa vocazione della pancia si somigliano moltissimo. Noi privilegiamo la testa e speriamo di essere ascoltati.

La Repubblica 01.12.13

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“Se si sbriciola il cerchio magico”, di ALBERTO STATERA
Si erge in fondo a un viale di pioppi nel parco di villa San Martino ad Arcore il mausoleo che Silvio Berlusconi fece realizzare dallo scultore Pietro Cascella, sorretto da dodici colonne che in quadrato s’innalzano verso il cielo, in un tripudio di sfere, cubi, piramidi e squadre massoniche. Dispone di ventiquattro posti intorno al sarcofago riservato al Condottiero, predisposti per gli amici di una vita
nell’eternità del trapasso.
MA QUELLE arche sepolcrali ornate da roselline di travertino rosso rimarranno sfitte, non solo perché il Parlamento ha respinto l’ennesima leggina ad personam per l’abrogazione del decreto napoleonico che impedisce le sepolture fuori dai cimiteri, ma anche perché l’antico cerchio magico del Cavaliere si è ormai dissolto. Fedele Confalonieri, Adriano Galliani, Marcello Del-l’Utri, Ennio Doris, i grandi mandarini; e poi Emilio Fede e Cesare Previti, i vecchi cadetti, non hanno mai apprezzato, per la verità, le visite rapite cui erano costretti nel mausoleo esoterico, ma come ubbidienti discepoli di una setta non hanno mai avuto il coraggio di esclamare ironicamente «Dominus, non sum dignus», come condotto nel vestibolo marmoreo fece da par suo Indro Montanelli.
La diaspora dei fedelissimi, logorati nell’affetto per un Condottiero dimezzato ormai volubile, ondivago, provato nel corpo e nell’anima, esposto a ogni spiffero, si compie in queste ore pubblicamente con il licenziamento senza tanti complimenti, salvo l’ultimo goffo tentativo di recupero, di Adriano Galliani ad opera della figlia Barbara, leader della “tendenza Veronica”. «La pazienza è finita», grida l’ex gestore di uno stabilimento balneare a Vieste, che trentacinque anni fa fornì al palazzinaro di Milano2 con la sua Elettronica industriale, le apparecchiature per la ricezione dei canali televisivi. Il vecchio mandarino berlusconiano non poteva credere di essere umiliato da una ragazza neanche trentenne incapace di deferenza persino verso il padre e la sua avventura politica: «Nel partito di mio padre — ha gufato Barbara prima della scissione di Alfano e Cicchitto — ci sono tante persone che sono inadeguate e hanno finto di sposare le sue idee, ma in realtà agivano per interesse personale: poltrone e potere ». La ragazza è determinata e la diaspora “intra moenia”, cominciata con il divorzio preteso da Veronica dall’uomo malato che ha bisogno di aiuto, è persino più grave di quella politica. E promette sviluppi bellici imprevedibili nella complessa sistemazione del patrimonio e del potere ai vertici del gruppo.
Persino Fedele Confalonieri, il mandarino più fedele che i ragazzi chiamano Fidel, non fa che perdere colpi e pare abbia cominciato a soffrire sia Marina che Piersilvio. Ha cercato fino all’ultimo di salvare Galliani dalla rottamazione, ma ha fallito. Il che non è affatto una novità rispetto alle strategie del capo, nonostante l’intimità assoluta, che risale a quando fu lui ad assumere giovanotto il futuro Condottiero nelle sue orchestrine, prima la “Roxy” e poi “I cinque diavoli”, che facevano le serate sulla riviera romagnola o sulle navi da crociera. Pensate che il primo appartamento di Milano2 Berlusconi riuscì a venderlo sulla carta alla madre di Confalonieri.
Ma sono quarant’anni che Fidel ottiene soltanto dei no, tanto che si dice sia ormai anche lui, come Galliani, prossimo al livello di rottura, in un rapporto che si fonda solo sulla comprensione dovuta al sodale di una vita.
Falchi e colombe alla corte di Silvio sono tutt’altro che una novità. Nel 1993 fautori della “discesa” in politica per evitare il fallimento e il rischio della galera furono Marcello Dell’Utri, Cesare Previti e Ennio Doris.
Contrari Gianni Letta e Fidel, che ebbe uno scontro durissimo con Berlusconi al momento del varo del “Progetto Botticelli”, dal nome dell’edificio di Segrate di Publitalia, nel quale si svolgevano le riunioni per la fondazione di Forza Italia. Non sapremo forse mai quante volte e con quali parole Confalonieri ha bollato, non solo le scelte politiche, ma anche le performance sessuali dell’amico-padrone, che hanno fatto ridere dell’Italia in tutto l’orbe terracqueo. Ma qualche traccia se ne trova in antiche intercettazioni telefoniche. Come quella del 31 dicembre 1986, quando Marcello Dell’Utri telefona poco prima della mezzanotte ad Arcore, dove è in corso la festa “elegante” di Capodanno. Risponde al telefono Confalonieri. «Qui ci sono questi farfallini», gli dice. E poi gli passa Berlusconi, che esordisce: «Marcello, iniziamo male l’anno».
Perché? «Perché dovevano venire due di Drive In e ci hanno fatto il bidone. E anche Craxi (evidentemente presente alla festa elegante — ndr) è fuori dalla grazia di Dio». Dell’Utri: «Ah, ma che te ne frega di Drive In?» Berlusconi: «Che me ne frega? Poi finisce che non scopiamo più. Se comincia così l’anno non scopiamo più».
Dell’Utri: «Va bene, insomma, che (Craxi) vada a scopare in un altro posto». Ma come mandare Craxi, padrone dei destini televisivi, a scopare in un altro posto? A questo punto, dopo un excursus di Berlusconi sulle tette delle signore presenti, Dell’Utri chiude un po’ stizzito la conversazione.
Dominus della trasmissione Drive In era allora Paolo Romani, badante degli affari sballati del fratello del capo, Paolo, assurto poi al ruolo di ministro, oggi capogruppo di Forza Italia al Senato e membro del neo-cerchietto magico di fidanzate, badanti e amazzoni.
Sulle “cene eleganti” di Arcore i mandarini del vecchio Cerchio magico hanno sempre ironizzato tra loro, falchi e colombe, salvo Emilio Fede che ne era, diciamo, pars magna. Del resto, quando il Condottiero dimezzato le alternava agli affari di Stato le sue performance erano ben note da anni, tanto che delle “seratine” arcoriane parlò più di vent’anni fa un articolo di Giorgio Bocca. Quando nel 1990 scippò la Mondadori a Carlo De Benedetti, facendo corrompere i giudici da Previti, non potendo atterrare a Segrate con l’elicottero, si fece attrezzare un camper con un “lettone”, nel quale quotidianamente vantava con allibiti interlocutori — ne siamo testimoni diretti — caldissime sessioni su ruote con soubrette delle sue televisioni.
Dell’Utri ha già subito la decimazione nelle ultime elezioni, Doris pensa agli affari della sua Mediolanum e teme che il Condottiero dimezzato e ormai incontrollabile procuri costosi guai al suo business. E il povero Gianni Letta, ultimo guardiano delle colombe? Ha fatto di tutto per sostenere la “deriva moderata” perdente e per fare da sponda al governo democristiano del nipote Enrico. Ma, col passo felpato dell’eminenza azzurrina, terminale di tutti gli affari ambigui delle massonerie catto-laiche dell’alta burocrazia che controllava con pugno di ferro foderato di velluto, è finito nel tritacarne che il Condottiero dimezzato e fuori controllo ha riservato agli antichi mandarini. Non solo è colpevole agli occhi del capo. Ma è forse il più colpevole di tutti. Non è riuscito ad ottenere ciò che Berlusconi agognava di più: una qualunque forma di salvacondotto
motu proprio da parte di Giorgio Napolitano. Perché lui non si umilier à mai a chiedere o a far chiedere la grazia, come realistici vorrebbero i figli.
Il povero Letta oggi si aggira tra prime teatrali, improbabili premi giornalistici, inutili convegni di ogni tipo, badando soprattutto a farsi riprendere dalle telecamere televisive. Persino per il nipote Enrico rischia di diventare l’iconcina educata di un passato che occorre si concluda in fretta.
C’è un documento che fissa la storia della Berlusconi-decadence. È una famosa fotografia del 1995 che ritrae nella villa “Blue Horizon” delle Bermude un tonico Condottiero che fa jogging con i fedelissimi del Cerchio: Letta, Confalonieri, Del-l’Utri, Galliani, tutti in tenuta bianca. Tutti, come racconterà Dell’Utri, a dieta stretta, esercizi spirituali e profonde letture (ma sarà vero?) di Francis Bacon e Platone. Una setta neopagana in pieno delirio di potere. Il nuovo scatto fotografico è dell’altro giorno a Roma, via del Plebiscito. Prefiche in nero, la fidanzata-badante e alla finestra il cagnolino Dudù.

La Repubblica 01.12.13

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