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“Se la scuola non guarda lontano”, di Benedetto Vertecchi

Il confronto sulle scelte di politica scolastica si sta ormai trascinando su questioni di funzionamento quotidiano. Ognuna di esse ha certamente una sua rilevanza, se non altro perché coinvolge le condizioni di lavoro di un gran numero di insegnanti e quelle di studio di milioni di bambini e ragazzi, ma è spesso marginale rispetto agli intenti da perseguire attraverso il sistema di istruzione. Il limite di tale confronto è che ci si sofferma su questioni contingenti senza chiedersi cosa accadrà tra cinque, dieci, venti o più anni (Piaget se lo chiedeva già più di mezzo secolo fa). Men che meno ci si chiede in che modo la scuola possa concorrere attraverso l’attività educativa a indirizzare lo sviluppo della cultura e della società in questa o quella direzione.

Gli interventi che rispondono a logiche di breve periodo possono, nei casi migliori, rimediare al disagio che si manifesta in questo o quell’aspetto del funzionamento del sistema educativo, ma non modificano la direzione del suo sviluppo. Non è un caso che, ormai da troppo tempo, i provvedimenti che riguardano la scuola non sono il risultato di un confronto che coinvolga le forze politiche e quelle sociali interessate al miglioramento dell’istruzione, ma sono inseriti, come nel caso della legge di stabilità appena varata, in una sorta di omnibus legislativo. Non si possono determinare alla spicciolata nuovi traguardi per l’educazione, i cui effetti non si limitino a qualche aggiustamento nei conti, ma possano riscontrarsi quando i bambini e i ragazzi che ora frequentano le scuole avranno finito il loro percorso sequenziale di studio.

La contraddizione che non si fa niente per risolvere è quella che oppone la rapidità dei cambiamenti che si verificano nella vita sociale e nella conoscenza con la necessità di estendere nel tempo la progettualità educativa. Non sappiamo che cosa faranno nella vita (in una vita, oltre a tutto, che gi à oggi è molto più lunga di quella delle generazioni precedenti) gli allievi che in questi anni fruiscono di educazione scolastica. Quel che è certo, è che gran parte di loro sarà impegnata in attività che ancora non esistono e che ciò suppone una grande capacità di comprensione e una grande flessibilità di comportamento. È il contrario di ciò che si ricava da interventi la cui validità il più delle volte si esaurisce prima che gli allievi abbiano terminato gli studi nei quali sono al momento impegnati.

Le scarse indicazioni a carattere prospettico che si ricavano dal dibattito politico e dagli interventi dell’opinione pubblica indicano una sostanziale insensibilità nei confronti della tradizione culturale italiana ed europea, che si aggiunge ad atteggiamenti subalterni nei confronti di scelte culturali che rispondono a interessi di mercato, senza tener conto di fenomeni evolutivi che non è difficile ipotizzare si manifestino nel medio e nel lungo periodo. Quando si enfatizza l’importanza dell’apprendimento dell’inglese e dell’informatica si accetta una linea di modernizzazione schiacciata sul momento. Non ci si chiede, per esempio, quale potr à essere nei prossimi anni il quadro della comunicazione linguistica nel mondo (eppure, nel Paese che più ha determinato la diffusione della cultura anglofona, gli Stati Uniti, sono stati pubblicati studi dai quali risulta che nell’arco di alcuni decenni la lingua più diffusa nel Paese sarà lo spagnolo, che peraltro già oggi è la lingua maggioritaria in città importanti, come Miami). Né ci s’interroga sulle conseguenze che potranno derivare da un uso fondamentalmente consumistico di apparecchiature digitali. Eppure, basterebbe osservare le abitudini e il comportamento di bambini e ragazzi per trovarsi di fronte a problemi che, quanto meno, richiederebbero una riflessione approfondita.

Nelle scuole la mancanza di scelte e la subalternità al mercato (peraltro incoraggiate dalle politiche dei governi che dall’inizio del secolo si sono succeduti alla guida del Paese) hanno portato a una progressiva riduzione della capacità di bambini e ragazzi di operare con le cose, trasformandole secondo un progetto tramite azioni coordinate e coerenti. Sono state rapidamente abbandonate attività la cui presenza qualificava l’attività didattica, per il fatto che costituiva la congiunzione necessaria tra l’acquisizione di conoscenze slegate e la loro composizione in un quadro funzionale. Si trattava delle attività di laboratorio, nelle quali era possibile superare la scissione tra il pensare e il fare, tra la mente e le mani. Non solo: l’apprendimento cessava di essere qualcosa di apprezzato solo nell’ambito di ritualità scolastiche, per segnare in profondit à il profilo degli allievi. Quel che si sarebbe potuto lamentare, semmai, era l’insufficienza delle dotazioni delle scuole, al fine di porvi rimedio. È accaduto, invece, il contrario: anche le scuole che disponevano di gabinetti e laboratori per le dimostrazioni scientifiche e per l’osservazione naturalistica, e che avevano nel tempo raccolto collezioni importanti di campioni minerali e biologici, hanno lasciato disperdere tale patrimonio, destinando le risorse a disposizione all’acquisto di materiale digitale.

Non starò qui a ricordare altre scelte ugualmente distruttive: quante sono oggi le scuole che dispongono di un teatro, di una sala da musica, di una biblioteca? Eppure, basterebbe considerare che tutte le dotazioni citate potevano essere utilizzate per molte generazioni di studenti, mentre le apparecchiature digitali sono soggette a un rapido superamento, per capire quanto i condizionamenti che, con la complicità dei governi, hanno finito con l’affermarsi comportino lo spreco delle limitate risorse disponibili per sostenere il lavoro didattico. La questione non è tuttavia solo di qualità dell’impegno delle risorse finanziarie. Se si potesse dimostrare che tramite le nuove dotazioni è possibile migliorare la qualità dell’educazione scolastica, se ne dovrebbe sollecitare la disponibilità indipendentemente dal costo. Il fatto è che i dati disponibili vanno in altra direzione. Da qualche tempo nella stampa internazionale, sia quella specializzata, sia quella d’informazione, si legge di progetti centrati su strumentazioni tecnologiche che sono stati interrotti per gli effetti negativi che stavano producendo o, addirittura, si apprende che in alcune universit à americane nei luoghi di studio sono state eliminate le connessioni alla rete. A mio giudizio erano eccessivi gli entusiasmi precedenti come lo sono gli atteggiamenti negativi che ora si stanno diffondendo. La questione vera è che cosa sia preferibile per l’educazione dei nostri bambini e dei nostri ragazzi. Un fatto è certo: nei laboratori che abbiamo evocato si acquisiva autonomia e si stabilivano rapporti positivi con la natura, mentre la realtà simulata nella quale oggi gli allievi sono immersi, se considerata come un’alternativa, produce l’effetto contrario. La conclusione mi sembra scontata.

L’Unità 01.12.13