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“Come recuperare fiducia in quel che mangiamo”, di Carlo Petrini

Possiamo dire che più il cibo ci è “lontano”, più ci fa paura: «Oltre 4 milioni di famiglie (il 16%) si dicono preoccupate per la qualità degli alimenti acquistati abitualmente. Il numero sale fino a quasi il 70% se si considera anche chi si dichiara abbastanza preoccupato». È il risultato di un’indagine di Accredia e Censis sulla percezione della sicurezza del cibo quotidiano.
SPULCIANDO i dati più in profondità si capisce come la distanza — concreta, culturale o data da una scarsa informazione — sia il motivo principale per cui quando si acquista il cibo si ha una qualche preoccupazione. Distanza concreta: la gente si fida di più dei prodotti acquistati direttamente dal produttore, nel piccolo negozio di quartiere o nel banco di frutta e verdura vicino a casa. Distanza culturale: ci si fida di più dei prodotti italiani, della tipicità (marchio Dop e Igp), del biologico; si ha paura di un generico “cibo etnico”. Infine, distanza dovuta alla scarsità d’informazione: è il prodotto a lunga conservazione, in scatola, di produzione industriale e proveniente dal-l’estero, quello che fa nutrire maggiori perplessità all’acquirente. Anche cibi precotti e già pronti, venduti negli hard
discount, con le etichette poco trasparenti e con scarse notizie su provenienza e ingredienti sono sentiti come meno “sicuri” degli altri.
Ad Accredia — co-autore dell’indagine — l’Ente unico nazionale designato dal Governo che accredita e riunisce in una fitta rete organismi certificatori (70) e laboratori di controllo (più di 1.000), giustamente questi risultati appaiono un po’ paradossali, visto che svolgono un’attività intensissima per scongiurare frodi, pericoli e contraffazioni. Attività necessaria e che sono sicuro sia eseguita molto scrupolosamente, ma è altrettanto evidente quanto sia impossibile poter pensare di controllare tutto. Nonostante i loro sforzi, infatti, gli italiani continuano a non essere del tutto sicuri sul loro cibo, d’altra parte «nell’ultimo anno più di 7 milioni di famiglie si sono ritrovate almeno una volta con un prodotto confezionato rivelatosi avariato». Allora ci vuole anche altro, qualcosa che ha a che fare con la nostra idea di cibo e che inevitabilmente ci fa tornare sul concetto di “distanza”.
Come si riduce questa lontananza? Due sono le parole chiave: educazione e prossimità. La maggior parte delle persone non sa quasi più nulla sul cibo. Non sa comprenderne le qualità effettive a partire dal suo sapore, non abbiamo palati “esperti” ed educati. Non lo sa cucinare, soprattutto se richiede una lavorazione un poco più complessa a partire da materie prime “integrali” (quanti sono in grado di pulirsi da soli un pesce crudo o un pollo?). Non si conosce più la stagionalità, il che sembrerebbe banale, ma provate a domandarvi esattamente in che mesi abbiamo i pomodori, le zucchine, i cachi, le arance e poi andate a controllare la risposta esatta: resterete sorpresi. Non sappiamo quali sono le tecniche di conservazione moderne dell’industria, ma neanche più quelle casalinghe dei nostri nonni. Non conosciamo le varietà di frutta e verdura, si sono molto omo-logate, ne abbiamo perse tante, ma sono ancora numerose e si prestano ai diversi usi o preferenze gastronomiche. Non sappiamo dove e chi coltiva le materie prime, da dove provengono, in che mani sono passate, come e perché. Sono informazioni che o non ci dicono o non riusciamo a capire oppure, troppo spesso, che non vogliamo più sapere. Eppure, secondo l’indagine, la sensibilità verso questi temi sta crescendo, la gente vuole informazioni. Il processo però parte prima di tutto a livello individuale: il cibo è ciò che mettiamo nel nostro corpo, indispensabile alla nostra vita e al nostro benessere. Va come minimo “studiato”, bisogna dedicarci del tempo.
Sarà così più facile fare una spesa intelligente, e di conseguenza anche trovare i canali giusti, convenienti e “sicuri”. Ed è qui che entra in gioco la prossimità. Sentire il cibo prossimo a se stessi significa poi cercare il cibo prossimo per davvero, quello che gli italiani hanno meno remore a comprare, sempre secondo l’indagine. Cibo comprato dai produttori, che intanto si conosceranno di persona; cibo comprato nei mercati di quartiere (contadini e no), dove chi vende ha una faccia più riconoscibile; cibo di cui si conosce la provenienza, e quindi anche il valore che rappresenta per il territorio d’origine, meglio se il proprio.
Accredia e Censis dicono che gli italiani vogliono un cibo «identificabile, pulito, sicuro e buono»; Slow Food sostiene che il cibo deve essere «buono, pulito e giusto». Se ci si ragiona, si giunge tutti alle stesse conclusioni: accorciamo le distanze tra noi e ciò che mangiamo, rimettiamolo al centro delle nostre vite.

La Repubblica 02.12.13