attualità, lavoro

“Poveri anche con il lavoro: lo stipendio non basta più”, di Carlo Buttaroni

Il carrello della spesa è sempre più vuoto. Nell’ultima settimana, solo il 18% delle famiglie ha acquistato tutto ciò di cui aveva bisogno, mantenendo gli stessi standard di consumo di 12 mesi fa. La metà delle famiglie riesce a tenere in equilibrio entrate e uscite con strategie di contenimento dei consumi, ma per 3 famiglie su 10 «tirare avanti» significa usare i risparmi o indebitarsi.
Nel frattempo, l’Istat ha comunicato gli ultimi dati sulla disoccupazione ed è un nuovo bollettino di guerra: 12,5% in complesso e 41,2% tra i giovani.
Nonostante gli annunci di miglioramento, quindi, la «tempesta perfetta » continua a imperversare sull’Italia e a far sentire i suoi effetti. In prima linea ci sono le famiglie, più colpite dalla lunga fase recessiva di quelle di altri Paesi. Basti pensare che nel momento peggiore della crisi la riduzione dei redditi delle famiglie italiane è stata del 4%, a fronte di una riduzione del Pil del 6%. Nella altre grandi economie, nonostante la contrazione del prodotto interno lordo, il reddito delle famiglie è cresciuto. È stato così in Francia (Pil -3% e redditi familiari +2%), in Germania e negli Stati Uniti (Pil -4% e redditi delle famiglie +0,5%).

DALLA MARGINALITÀ ALLA VULNERABILITÀ

Persino lavorare non è più sufficiente: quasi l’11% di chi ha un’occupazione vive sotto la soglia di povertà. Li chiamano «poveri in giacca e cravatta». D’altronde, la crisi che stiamo vivendo, genera nuove traiettorie d’impoverimento, modifica le forme del disagio sociale, sposta l’asse dalla marginalità alla vulnerabilità, vale a dire dall’idea di «povertà cronica» a quella di «processi di impoverimento diffuso» in cui è coinvolta una moltitudine di persone cui il lavoro non assicura più i mezzi per una vita dignitosa e il sostentamento necessario.

La situazione gravissima che sta vivendo l’Italia è il risultato di fattori strutturali e congiunturali su cui le politiche «lacrime e sangue» hanno agito da detonatore. Il Fondo monetario internazionale ha parlato di «rischi di autodistruzione» delle economie nazionali sottoposte alle cure dell’austerity durante fasi recessive dopo che, nel 2010, il caposcuola dell’austerità Alberto Alesina dell’Università di Harvard, aveva assicurato i ministri delle finanze europei che «forti riduzioni dei disavanzi di bilancio sono accompagnate e immediatamente seguite da una crescita sostenuta, piuttosto che da recessioni, anche nel brevissimo periodo». Ma c’erano alcuni errori alla base di questa teoria, il primo dei quali è stato il confondere la correlazione con la causalità. In un articolo del blog «The Next New Deal» pubbli- cato dalla Roosevelt Foundation, si evidenzia come, dato un certo rapporto Debito/ PIL, è molto più probabile che la bassa crescita sia precedente tale rapporto e non successiva. L’aumento del debito pubblico determina, infatti, negli anni successivi al «picco», tassi di crescita leggermente maggiori che nel periodo precedente. È, quindi, la bassa crescita la causa di debiti pubblici elevati e non il contrario. Da qui i pessimi risultati della cura del «rigore» che sono sotto gli occhi di tutti: azzeramento della crescita, incremento della disoccupazione, ero- sione del capitale umano e sociale. Le politiche di austerità hanno colpito molto più se- veramente i soggetti che si collocano in fondo alla scala della distribuzione del reddito, semplicemente perché coloro che si trovano nella parte alta usufruiscono molto meno dei servizi pubblici.
Ecco, invece, cosa scriveva l’economista di Cambridge, John Maynard Keynes, nel 1933 a
Franklin Delano Roosevelt. «Lo scopo del programma di Ripresa economica è quello di aumentare la produzione nazionale e mettere più uomini al lavoro. Nel sistema economico del mondo moderno, la produzione è attuata principalmente per la vendita e il volume di produzione dipende dalla quantità di potere d’acquisto che ci si attende arrivi nel mercato. In termini generali, pertanto, un aumento della produzione non può avvenire se non per il funzionamento di uno o l’altro di tre fattori: gli individui devono essere indotti a spendere una parte maggiore dei loro redditi oppure le imprese devono essere indotte a creare ulteriori red- diti correnti nelle mani dei propri dipendenti, che è quanto succede quando o il capitale circolante o il capitale fisso del Paese viene potenziato. Oppure ancora, l’autorità pubblica deve essere chiamata in aiuto per creare ulteriori redditi correnti attraverso la spesa di denaro preso in prestito o stampato. In tempi difficili, il primo fattore non si può pretendere funzioni su una scala sufficiente. Il secondo fattore entrerà in gioco in un momento successivo, dopo che sarà cam- biato il vento grazie alle spese dell’amministrazione pubblica. È, pertanto, solo dal terzo fattore che ci si può aspettare il maggiore impulso iniziale».

L’ALIBI DEL DEBITO

In poche parole, Keynes riteneva che non si può comprimere il processo di crescita e l’austerità è esattamente l’opposto di ciò che è necessario fare in un momento di crisi. D’altronde è evidente: un Paese non può liquidare il suo deficit se la fonte delle sue entrate, il reddito nazionale, è in diminuzione. In questo caso, è proprio la riduzione del deficit e non il debito a essere contropro- ducente, perché implica lo spreco del capitale umano e fisico disponibile, oltre la miseria che ne scaturisce.

In Italia, la convinzione prevalente sulle cause della crisi economica e sulle soluzioni per uscirne, ha identificato nell’alto debito pubblico «a rischio insol- venza» la causa primaria dei problemi attuali. Sempre al debito è attribuita anche la malattia endemica del Paese: la debole crescita economica. In realtà, come molti studi hanno dimostrato, l’aumento del debito pubblico dipende dalla mancanza di crescita economica e non il contrario. Ma poiché è difficile motivare i tagli e il rigore in base a modelli macroeconomici di breve periodo, i sostenitori dell’austerità si sono concentrati su spiegazioni di lungo periodo, mescolate a considerazioni di tipo etico: il debito pubblico è un male poiché limita la crescita dell’economia nei decenni a venire e quindi renderà tutti più poveri nel futuro. Soffrire oggi per godere dei benefici in un futuro non meglio identificato: questo, in altre parole, l’obiettivo dei sostenitori dell’austerity. E per non diventare poveri domani, quindi, si è scelto di farlo subito.

L’Unità 02.12.13