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Tra gli operai schiavi di Chinatown “Ora tutti gridano allo scandalo ma molti italiani si sono arricchiti con noi”, di Laura Montanari

Come ombre, arrivano da soli o in coppia, guardano da lontano il posto, il capannone bruciato di “Teresa moda”, le stoffe ammassate, le grucce esplose, gli stendini deformati dal fuoco, le sbarre alle finestre. Su una cassetta rovesciata, due o tre mazzi di fiori. Nessuno va loro incontro e loro non cercano nessuno. I lavoratori di Chinatown non fanno domande, non danno risposte. Guardano e basta. Se provi ad avvicinarli, dicono di non capire l’italiano, allungano il passo per sparire nelle fabbriche intorno: Macrolotto 1, zona industriale. Questa Prato è un bosco di capannoni e di tralicci che congeda la città coi campi incolti. Nei magazzini e nelle fabbriche arrivano furgoni e tir dall’Italia e dall’estero. Caricano abiti da tre o cinque euro che poi, spiega Marco Ye, che lavora nel Pronto moda, «trovi dei negozi a 30-50». Le insegne sono tutte in doppia lingua, italiano e cinese, Ye Life, Chic Style, Raymon Fashion. Qui non ci sono domeniche e di notte le luci restano accese fino a tardi se ci sono consegne da evadere, certi giorni, all’alba si sente ancora lo stridere delle macchine taglia e cuci. È così da anni.
Questa è l’altra Prato, quella del fast fashion, la moda che corre, che intercetta le tendenze spiate sulle passerelle e le riproduce al volo su commissione. È una città nella città, «grande come Siena» dice l’assessore “sceriffo” della giunta di centrodestra, Aldo Milone. Trentaduemila sono i cinesi residenti o con permesso di soggiorno, altri 15mila almeno, i clandestini. Sono due città distanti che nemmeno il lutto unisce se è vero che le associazioni orientali hanno organizzato una fiaccolata per stasera e quelle italiane, una per il giorno dopo, cioè domani quando il Comune ha proclamato il lutto cittadino. Ieri lavoravano tutti al Macrolotto, così come nella zona di via Pistoiese, fra i ristoranti e i supermercati orientali: «Un incendio? Ma dove?» si stupiva qualcuno impermeabile alle notizie.
Negli ultimi 4 anni, dopo i controlli dei vigili urbani, sono state chiuse 1.200 aziende cinesi per mancanza delle più elementari norme di sicurezza.
Ma si sono rigenerate nel giro di poco, con un altro nome e pochi metri in là. «Mancano le case, per questo stanno nei capannoni» spiega Zheng, confezionista al Macrolotto. Nella stessa domenica della strage, i vigili hanno messo i sigilli alle fabbriche che confinavano con “Teresa Moda”: anche là, bombole e dormitori, alveari di due metri per due senza finestre, soltanto lo spazio per un materasso e poi fornelli e ceste di verdura. «Ma non siamo tutti così » raccomanda Yang che ha appena aperto una ditta ancora senza nome. «Che dolore — dice Hata, 29 anni, studi universitari e un lavoro in un’agenzia di viaggi — Veniamo qui per mantenere le famiglie in Cina e poi c’è chi muore così».
Matteo Ye, uno che tiene i collegamenti fra la comunità cinese e quella di Prato è arrabbiato: «Chiamate perché c’è stata una tragedia eh? E le altre volte che noi abbiamo chiesto aiuto, voi dove eravate?». Zu Long, buddista, dell’associazione Li Shui pensa che «questo incidente insegnerà ai cinesi prudenza e rispetto delle regole, stiamo cambiando, faremo un volantinaggio nelle fabbriche». Altri prevedono dopo i lutti, un giro di vite sui controlli. Ieri i vigili urbani sono andati nella zona industriale di Paperino e hanno chiuso una fabbrica di confezioni con annesso dormitorio per venti immigrati: tre irregolari, altri con contratti part time. Solito scenario: loculi in cartongesso senza finestre o finestre oscurate con una mano di vernice nera e fuori, le telecamere.
Hanno chiamato il proprietario del capannone, è un italiano che abita a Prato: «Non sapevo che vivevano qua dentro» è il copione che fa scrivere nel verbale. Sul contratto, l’affitto è di 12mila euro l’anno, ma chissà se, come hanno raccontato altri cinesi, era previsto il fuori busta. Gli affari si fanno anche così: «Sono diventati ricchi con noi » punta l’indice Zhu. «Ho denunciato diversi proprietari per abuso edilizio,
sono loro che devono controllare gli inquilini» sostiene l’assessore Milone.
Chinatown è un gioco di specchi, ha facce regolari e altre che non vedi. Dicono che ogni tanto qualche griffe porti commesse da queste parti: è l’appalto dell’appalto dell’appalto, ci si difende dicendo di non sapere. Nel capannone sequestrato ieri c’erano etichette per abiti su cui si leggeva: «Questo capo Rinascimento (stilizzata la Venere di Botticelli) è stato prodotto interamente in Italia». Tutto vero perché anche questa è Italia. «Ci vuole più sicurezza e informazione» chiedono a più voci i ragazzi italiani di Chinatown, la seconda generazione cresciuta fra le scuole e i laboratori. «Non scrivete che qui ci sono schiavi. Se gli operai non stessero meglio che in Cina, resterebbero là» riflette Alex. Forse non sa dei ricatti ai clandestini, dei passaporti ritirati dai padroni. Si affaccia al suo capannone e guarda le macerie lasciate dall’incendio. C’è un cinese venuto da Firenze per portare un mazzo di fiori. Ha scavalcato il nastro bianco e rosso e si è inginocchiato nella cenere nera e spessa, come questo lutto.

La Repubblica 03.12.13