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Il «grande scippo» ai danni delle cooperative e del Paese, di Rinaldo Gianola

Dopo otto anni il disegno criminale della scalata di Unipol a Bnl non si trova più. È svanito. La Corte d’appello di Milano ha detto ieri che il fatto non sussiste, che l’ex governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio e l’ex presidente di Unipol Giovanni Consorte, non sono colpevoli di aggiotaggio, cioè di quel reato-chiave che, secondo l’accusa, sarebbe stato compiuto nel subdolo tentativo di scalare la banca. Fazio, Consorte e gli altri imputati non hanno, dunque, pubblicato o diffuso notizie false, esagerate o tendenziose finalizzate ad alterare i prezzi di Borsa e a imbrogliare risparmiatori e investitori.

Anche se il reato era già prescritto, e quindi si poteva passarci sopra serenamente, la Corte d’appello ha preferito motivare la decisione richiamando l’articolo 129, che dice che non si può procedere quando «il fatto non sussiste» o «non è punibile». Per l’accusa, per Abete, Della Valle, Rutelli, Montezemolo e il gruppo di improbabili moralizzatori che desideravano limitare l’interesse economico delle cooperative «ai supermercati», è una sconfitta. Ma non pagheranno, anzi ci hanno guadagnato.

Della Valle è uscito dalla Bnl con una plusvalenza di circa 240 milioni di euro depositati presso una finanziaria in Lussemburgo. Abete, che mentre infuriava la battaglia aveva detto di voler abbandonare la presidenza Bnl, è ancora lì al suo posto, inamovibile come un paracarro. Gli spagnoli del Banco di Bilbao, i rivali di Unipol, incassarono 600 milioni di plusvalenza uscendo da Bnl, “salvata” dai francesi di Bnp Paribas, e sono stati i promotori, davvero senza vergogna, della causa d’appello contro Unipol chiedendo un miliardo di danni.

La Corte d’appello ha condannato il Bilbao a pagare le spese processuali. Meno male. E allora, adesso? Basta, finito. Tutti a casa. Ma si può chiudere così questa partita finanziaria, giudiziaria e anche, forse soprattutto, politica? No. Non è escluso che ci possa essere uno strascico in Cassazione, ma quelle che conta oggi è il valore della sentenza che offre, se possibile, una luce diversa, non per noi dell’Unità, su quanto è accaduto nell’estate del 2005 e dopo.

Diciamo subito che Antonio Fazio e Giovanni Consorte sono probabilmente personaggi non graditi all’establishment, non godono di simpatie e appoggi nemmeno tra i grandi giornali confindustriali che in questi anni hanno fatto a gara nel farli a pezzettini, nel distruggere la loro reputazione usando soprattutto i testi di discutibili intercettazioni telefoniche o le ricostruzioni della Procura che, alla luce della sentenza di ieri, potevano indurre almeno qualche dubbio in agguerriti giornalisti investigativi che sulla grande stampa si mettevano in tre (3) a copiare e firmare le note dei questurini.
Però l’ex Governatore della Banca d’Italia, che lasciò il suo prestigioso incarico quando fu colpito dalle accuse, non è un delinquente, non si è arricchito con le scalate bancarie, tantomeno con quella della Bnl. In questi anni Fazio non ha mai parlato, non ha mai detto nulla in pubblico, si è sempre e solo difeso in Tribunale. Un comportamento da apprezzare, meriterebbe almeno una telefonata di solidarietà di Mario Draghi. Consorte è ancora meno simpatico di Fazio. Non è il tipo da essere invitato nella villa di Dogliani dall’ingegnere De Benedetti.

È uno che si è fatto da solo, ha lavorato per le cooperative, ha portato lavoro e denaro, ha cercato di sposare Unipol con Bnl in un disegno industriale ambizioso, forse temerario ma non fraudolento. Certo Consorte era un bel rompiballe: aveva portato l’Unipol tra gli scalatori di Telecom Italia, la “grande colpa” che tutti i partecipanti devono scontare, e quando era uscito aveva prodotto enormi plusvalenze per la compagnia e aveva guadagnato anche di suo. A un certo punto, siccome secondo giudici e gazzette Consorte non poteva aver fatto investimenti regolari, gli sequestrarono i milioni di euro derivanti dall’uscita da Telecom.

Ovviamente, poi, sono stati dissequestrati. Così va la vita. Consorte forse è uno capace di mettersi nei pasticci, ma le accuse contro di lui in merito all’operazione Bnl non sono mai sembrate precise, concrete. In questi anni Consorte ha combattuto in Tribunale, oltre che contro una brutta malattia, e ha sempre giurato di non aver combinato nulla, di non aver commesso alcun reato in quella scalata alla Bnl. Possibile? Come credergli? C’erano le telefonate, la Confindustria non voleva che Unipol uscisse dal recinto e anche a sinistra, nel centro-sinistra, si guardava con sospetto a quella operazione coraggiosa che poteva dotare quei barboni di comunisti di una grande banca.

Come potevano le cooperative prendersi la Bnl proprio mentre si iniziava a discutere della creazione del Partito democratico? Meglio allora lavorare col fango, gettare ombre e sospetti su Consorte, la Banca d’Italia, gli altri alleati, banche e imprenditori. La chiave di tutto, per ammazzare l’iniziativa dell’Unipol, fu quella di orchestrare la teoria delle «scalate dei furbetti» dell’estate 2005. L’Opa Unipol su Bnl venne messa insieme, in un unico disegno destabilizzante, a quella di Fiorani su Antonveneta e alla scalata totalmente ridicola oltre che infondata di Stefano Ricucci al Corriere della Sera.

Il take over di Unipol non c’entrava nulla con il resto, ma frullato nello stesso calderone si poteva bloccare l’attacco, invocando pure la difesa della democrazia e dell’economia reale. Si alzò il polverone, Rutelli arrivò a proporre perfino una legge per difendere via Solferino. Quella era l’estate del 2005. L’Unipol venne bloccata sulla strada della Bnl. Consorte finì nei guai, indagato. Fazio dovette dimettersi.

Le cooperative, una realtà allora con 7 milioni di soci e 400mila dipendenti, e il Paese vennero scippati di una grande occasione di sviluppo, si impedì all’Unipol di prendere la Bnl. Nel frattempo quattro sentenze di Corte d’appello (Genova, Roma e due a Bologna) stabilirono che non c’era stato alcun “concerto” tra Unipol e gli altri soci nella scalata alla Bnl e, dunque, di quale patto segreto, di quale connivenza della Banca d’Italia si voleva ancora parlare? Ci sono voluti otto anni affinchè la giustizia italiana stabilisse che «il fatto non sussiste». Amen.

L’Unità 07.12.13