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“Il mondo: grazie Madiba”, di Pietro Veronese

I leader del Mondo rendono omaggio alla figura di Nelson Mandela. Funerali il 15 dicembre nel villaggio natale di Qunu. l mondo intero lo ha saputo nel giro di minuti, la notizia è corsa ai quattro angoli del globo in pochi attimi e adesso le note che furono un inno religioso e poi la colonna sonora del rinato orgoglio sudafricano sono diventate un canto funebre. Nelson Mandela è morto e nelle chiese, nelle piazze, nelle scuole di ogni ordine e grado e sui luoghi di lavoro, ovunque attraverso il Paese la gente si riunisce e intona Nkosi Sikelel’iAfrika, lo struggente inno nazionale “Dio benedica l’Africa”, con un tempo rallentato, come si addice al lutto.
Era un giorno lungamente atteso, poteva succedere in qualunque momento dall’8 di giugno, quando in piena notte l’anziano Madiba era stato trasportato d’urgenza in ospedale. Le sue condizioni erano state definite «gravi» e poi, settimane dopo, «critiche ». Ma adesso che è accaduto lo sgomento non è per questo minore. Da Johannesburg a Pretoria, le persone si fermano per strada, si abbracciano, si assiepano sui banchi delle chiese o nei luoghi della sua vita, nelle strade adiacenti alla casa dove è spirato, sotto l’ospedale dove è rimasto ricoverato fino a settembre, accendono candele, si raccolgono in preghiera, versano lacrime senza rumore e senza ritegno. Ballano e cantano in centinaia anche davanti alla sua vecchia casa di Soweto.
E’ un lutto collettivo quello che avvolge da ieri il Sudafrica, un lutto pieno, di tutti, che a vederlo da fuori appare senza dubbio sentito nel profondo dell’anima. Coinvolge i vecchi e le generazioni nate dopo la fine dell’Apartheid, ormai una buona metà della nazione, e i bambini che Mandela non lo hanno quasi nemmeno mai visto, perché è da più di dieci anni che si è ritirato da tutto. A loro è apparso forse solo quel giorno di luglio 2010, l’ultimo dei Mondiali di calcio sudafricani, quando fece il giro dello stadio in auto elettrica, la moglie Graça seduta accanto a lui, per raccogliere l’ovazione, l’ultima ovazione, del mondo, il suo addio ufficiale alla scena pubblica.
Già nella mattinata di ieri, quando ancora si aspettavano i primi annunci delle celebrazioni funebri che copriranno una decina di giorni, gli analisti finanziari discettavano sulle conseguenze che la scomparsa di Mandela potrà avere sull’economia sudafricana, sull’irrequietezza sociale e sindacale già altissima in questo 2013 che si sta chiudendo, sulla declinante fiducia degli investitori internazionali, sull’andamento faticoso della Borsa di Johannesburg e la tenuta del rand, la valuta nazionale. Gli analisti politici invece si chiedevano se la sua morte avrà un’influenza positiva o negativa sul risultato dell’African National Congress alle politiche dell’anno prossimo, le general elections
del ventennale, le quinte nella storia del Sudafrica democratico, dalle quali usciranno un nuovo Parlamento e un nuovo presidente e che già s’annunciano contrastatissime. Ma per l’uomo della strada sono soprattutto ore di sgomento, la presa di coscienza di un vuoto che non ha rapporto razionale con il venir meno di un uomo molto anziano, il cui pensiero e le cui parole sono ignote al mondo già da numerosi anni, lontanissimo ormai da ogni pubblico ufficio o responsabilità.
Eppure ancora ieri Mandela era per tutti Tata, il papà, come tale vissuto e sentito dal popolo. Non una di quelle figure di padre- padrone, di dittatore che riduce le masse in stato di minorità, non un caudillo sudamericano o un satrapo orientale, bensì un riferimento morale, privo di qualsivoglia potere ma simbolo di unità, di convivenza, di umanità condivisa. E intervistati dai giornalisti sui marciapiedi delle grandi città, i passanti rivelano il rinnovarsi di timori profondi, del ritorno di divisioni, tensioni e conflitti razziali ai quali c’è già chi lavora attivamente nell’arena politica.
No, la lunghissima agonia di Madiba non ha ancora consentito l’elaborazione del lutto nazionale. Essa sta appena incominciando.
Saranno lunghi i giorni e i loro riti. Il 10 dicembre i sudafricani sono chiamati ad affluire nel grande stadio di Soccer City a Soweto, il tempio dei Mondiali del 2010, per una cerimonia funebre. La salma verrà esposta agli Union Buildings di Pretoria, il greve, maestoso edificio di scura arenaria che ospita la presidenza della Repubblica del sudafricana, dove riceverà l’omaggio dei potenti del mondo che si apprestano ad affluire in massa verso la capitale sudafricana. I funerali avverranno domenica 15, ha annunciato il presidente Jacob Zuma. Nelson Mandela verrà sepolto a Qunu, il villaggio della sua infanzia, come era suo esplicito desiderio: solo una pietra a segnalare la sua tomba.
Sono stati diramati circa duemila inviti, da Bill Clinton ai domestici che gli sono stati vicini nella sua casa di Houghton, da Barack Obama al Dalai Lama. Tutti gli altri non potranno nemmeno avvicinarsi, soltanto sugli schermi dei televisori potranno vedere il ritorno alla terra di Madiba e l’avviarsi del Sudafrica verso un futuro pieno di incertezze.

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Le lacrime di Obama orfano dell’uomo che cambiò la sua vita”, di VITTORIO ZUCCONI

È rimasto solo sul palcoscenico spietato della storia, quel Barack Obama che giovedì sera ha inghiottito le lacrime salutando per sempre il suo “Madiba” Mandela. L’immensa ala di quel bambino di 9 anni che da un villaggio senza strade e da un carcere del gulag razziale sudafricano divenne presidente della propria nazione, non ci sarà più a proteggere idealmente da lontano il cammino del primo americano con sangue africano capace di sfondare la barriera bisecolare dell’ “Apartheid” Usa.
Nell’uragano di cordoglio ufficiale e di gratitudine pelosa che ha circondato la notizia della morte di Mandela — nascondendo le lunghissime code di paglia di nazioni come gli Usa che fino al 2008 lo avevano tenuto nella lista dei terroristi, o del Regno Unito che con la Thatcher si era battuto contro le sanzioni anti-Apartheid — il solo che abbia parlato davvero dal cuore della propria vita è stato Obama. Anche 6 anni dopo la sua elezione e rielezione, il presidente americano sa di vivere sempre nella condizione di un sorvegliato speciale, di un leader in “presidenza vigilata” che deve dimostrare, per il colore della pelle, di non essere semplicemente come gli altri, ma “meglio degli altri”.
In Mandela, Obama ha perso quel padre che nella vita reale non aveva davvero mai avuto, dopo l’abbandono della madre e il ritorno in Kenya del padre naturale. «Nella maniera più modesta immaginabile, anche io fui uno di coloro che cercarono di rispondere al suo richiamo » ha detto ricordando come la sua prima discesa nel campo dell’impegno politico fu una dimostrazione contro l’Apartheid in Sudafrica. Barack Obama è l’ultima «grande speranza nera». È colui che deve dimostrare ogni giorno, con i fucili puntati contro, che le persone devono essere giudicate per il valore del loro carattere e non per il colore della pelle. Parlava dunque per sé, con un brivido di vuoto, il presidente orfano di padre per la seconda volta nella vita, quando diceva che «non ci sarà più un altro Mandela». Suonava come una confessione di inadeguatezza, come una preghiera implicita a non giudicare lui con lo stesso metro impossibile di chi non aveva soltanto fatto la storia ma che l’aveva anche cambiata. Fino al punto di rendere pensabile, e poi possibile, l’elezione di un afroamericano figlio di un immigrato dal Kenya al vertice di una nazione nella quale, ancora una generazione prima, alcuni Stati consideravano un crimine il matrimonio
fra bianchi e neri.
Lui, come quella sorta di suo “angelo custode” ideale al capo opposto dell’Oceano e dei continenti, si considera figlio della parola che divenne un suo mantra elettorale, Hope, speranza, perché di questo fu fatta la rivoluzione di Mandela. «Quando seppi che era uscito dal carcere, ebbi per la prima volta il senso di che cosa possano fare gli essere umani quando sono guidati non dalla paura, ma dalla speranza».
Molto più di ogni legge o sentenza, il trionfo morale e poi politico di “Madiba” aveva dato legittimità alla sfida di un altro uomo nero verso la presidenza degli Stati Uniti. Aveva dimostrato che tutte le miserabili equazioni del razzismo e della discriminazione erano false e che il figlio di un villaggio nell’Africa del Sud poteva avere, come il più raffinato intellettuale partorito dai college dei bianchi, forza e doti morali superiori.
Mandela era la laurea che Obama avrebbe presentato alla commissione di esame, all’elettorato, anche senza esibirla, perchè ormai l’avventura del rivoluzionario post gandhiano era entrata nella coscienza universale. È stato detto che non si sarebbe stato un Obama senza un Mandela. Ma ora la domanda si rovescia e stringe la gola del presidente: ci sarà ancora un Obama senza Mandela? La speranza, appunto, the Hope, è che ormai il cammino aperto da lui e battuto dal suo lontano figlio americano, sia irreversibile.

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Gordimer: “L’ultimo tarlo di Madiba la corruzione che divora questo paese”
La scrittrice: “La sua magia, era un democratico naturale”, di FRANCESCA CAFERRI
«NOI sudafricani siamo fortunati ad averlo avuto con noi, ad aver visto una persona così camminare sulla nostra stessa terra. Ecco, solo questo posso dire se mi chiede qual è oggi il mio primo pensiero: perché se dovessi provare a spiegare tutto quello che ho avuto da lui, io che sono fra le persone che hanno avuto l’onore di conoscerlo di persona, credo che non ci riuscirei ». Dalla sua casa di Johannesburg la voce di Nadine Gordimer, la più grande scrittrice sudafricana vivente, la donna che per anni ha raccontato al mondo la lotta del suo paese contro l’Apartheid, arriva calma e controllata: come milioni di connazionali, era preparata all’annuncio della morte di “Madiba”, come lo chiama per tutto il tempo. Eppure, come tanti altri, sembra incredula, attonita: ha voglia di parlare, come per fissare i ricordi. «Perché — dice — nessuno nella storia contemporanea ha fatto qualcosa di grande come quello che ha fatto lui».
Signora Gordimer, che eredità lascia Mandela al mondo?
«Madiba era un democratico naturale, una cosa piuttosto inusuale in Africa. In un continente che ha lottato per decenni per liberarsi dalla dominazione straniera e raggiungere la libertà, è raro trovare qualcuno che non basi la sua azione sull’odio o il risentimento. Lui invece lo faceva: vedeva le persone come esseri umani, bianchi o neri che fossero, li osservava con mente aperta per arrivare a capire la loro essenza. Non era un modo di fare costruito, cerebrale: era qualcosa di insito nelle sue ossa, nel suo cuore. Non inseguiva la tolleranza, ma il mutuo riconoscimento».
Lei è una delle poche persone al di fuori della famiglia che ha avuto contatti con lui fino agli ultimi mesi: c’è un ricordo personale che vuole condividere?
«L’ultima volta che l’ho visto, saranno stati 18 mesi fa. Era stato George Bizos, il suo avvocato, la sua ombra, a invitarmi a colazione da lui. La colazione era il pasto preferito di Madiba, ma lui si alzava tardi, e così l’appuntamento era per le 11: una sorta di brunch. Abbiamo mangiato poi ci siamo seduti in salone, lui nella sua solita poltrona speciale, un po’ disteso. Non camminava, parlava poco, molto lentamente, faceva delle lunghe pause: ma capiva tutto. A George chiedeva degli amici, poi si rivolgeva a me, poi tornava a George: voleva sapere dell’ANC, delle discussioni interne. Voleva essere informato, non gli piaceva che tante persone che avevano lottato contro l’Apartheid fossero oggi state allontanate dal partito, era deluso. Sapeva che i suoi gli tenevano nascoste molte cose, per non turbarlo: così chiedeva a noi. E poi ci sono gli altri ricordi, indimenticabili: la prima volta che ci siamo incontrati, nel 1964 durante il processo Rivonia, al termine del quale fu condannato all’ergastolo. O
negli anni ‘90 quando lui e De Klerk vennero a casa mia, sulla veranda, per discutere del futuro del Sudafrica in un luogo protetto e lontano dalle tensioni. Oppure quando ebbi l’onore di essere con lui a Oslo, nel gruppo di persone che lo accompagnarono a ritirare il Nobel per la Pace: centinaia di persone lo acclamarono, cantando i cori dell’ANC così lontano da casa, è stata una grandissima emozione».
Ha parlato di delusione: cosa amareggiava Mandela?
«Il livello di corruzione che permea ogni livello del governo e della macchina economica del Sudafrica gli creava profondo dolore: Madiba non si è mai interessato ai soldi, non ha mai cercato di favorire i suoi amici o i suoi familiari. Viveva in una casa grande e confortevole, non in una enorme e lussuosa villa. Era davvero deluso: se lui fosse stato ancora in forze nessun membro dell’ANC si sarebbe potuto permettere di rubare come
invece hanno fatto in tanti».
Il Sudafrica arcobaleno sopravviverà alla morte del suo padre fondatore?
«I sudafricani dovranno sempre ricordare che privilegio è stato vivere nello stesso paese di Madiba ».

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“QUANDO MANDELA PRESE LE ARMI”, di BERNARDO VALLI
SHARPEVILLE è una borgata di quello che allora si chiamava ancora il Transvaal. Parlo del 1960. Era una township dalla quale i neri potevano uscire soltanto con un lasciapassare per andare a lavorare nelle zone dei bianchi, e nella quale dovevano rientrare la notte.
QUANDO noi cronisti arrivammo era già trascorsa una settimana dal massacro. Sessantanove cadaveri, annotai, e centottanta feriti. Tra gli uccisi c’erano alcune donne, con i bambini che portavano con sé quando andavano a servire le famiglie di origine inglese o boera. Sulle porte di alcune case c’erano dei nastri neri in segno di lutto. Quelli bianchi indicavano che la vittima non era un adulto.
Sharpeville era stata ripulita. Le tracce di quel che era accaduto il 21 marzo erano visibili soltanto sui muri delle case basse, al massimo a un piano. C’erano i graffi dei proiettili. Per ammazzare una settantina di esseri umani e per ferirne quasi duecento bisogna sparare parecchio. Ma gli afrikaner non lesinavano i mezzi per imporre l’Apartheid, istituzionalizzato al fine di separare lo sviluppo di bianchi e neri, vale a dire di segregare i neri, privati dei diritti civili e politici riservati ai bianchi.
Quello che accadde a Sharpeville fu per Nelson Mandela una staffilata. A quarantadue anni era già un militante importante nell’ African National Congress, ma il massacro del 21 marzo lo trasformò in un uomo pronto all’azione armata. Amava la pace, ma non era un pacifista. Allora, dopo Sharpeville, convinse l’ANC che la strategia della non violenza era ormai superata, poiché in mezzo secolo non aveva dato alcun risultato. Bisognava dunque ricorrere alle armi.
In quella primavera del ’60, come reporter di pelle bianca più che evitare la polizia bisognava vincere la diffidenza degli africani. Subito dopo il massacro ne erano stati rinchiusi in campi di concentramento almeno ventimila. Era comprensibile che non si fidassero troppo di chi non aveva la pelle nera. Il governo dominato dal National Party (il cui capo, Hendrick Verwoerd, era stato l’architetto dell’Apartheid) ne avrebbe arrestati molti di più, ma le industrie, le fattorie, e in particolare le miniere d’oro senza le braccia degli africani neri sarebbero rimaste paralizzate.
Quindi le regole erano state rafforzate, soprattutto erano state imposte ulteriori restrizioni alle concessioni dei lasciapassare (estesi anche alle donne), ma la repressione dopo la violenza a Sharpeville e in altre township non aveva avuto l’ampiezza auspicata dal governo. Gli industriali, in gran parte di origine inglese, mentre gli agricoltori erano di origine boera, non volevano subire troppi danni. Non volevano restare senza braccia.
Molti morti erano stati colpiti alle spalle. C’era chi mostrava le camice bucate dai proiettili. Una donna mi mise sotto il naso quella di un congiunto, senza dire una parola. La manifestazione contro l’inasprimento della legge sui lasciapassare aveva raccolto cinque-settemila persone. Le quali si stavano disperdendo quando la polizia aveva intensificato
gli spari ad altezza d’uomo.
Nel giugno dell’anno successivo Nelson Mandela creò e comandò Umkhonto we Sizwe, la Lancia della patria, l’organizzazione armata dell’ANC. Il quarantenne elegante, amante delle donne, del pugilato, del ballo, della musica, visitò clandestinamente almeno dieci paesi africani, dall’Etiopia all’Algeria, per imparare l’arte del guerrigliero e quindi apprendere l’uso degli esplosivi e il funzionamento di mitra e pistole.
Ha spiegato con chiarezza questo estremo ricorso alla lotta armata. A determinare il tipo d’azione – ha detto e scritto – è sempre l’oppressore; l’oppresso non può che scegliere la forza, se l’oppressore la usa contro le legittime aspirazioni popolari, se rifiuta un vero dialogo. E’ sempre meglio risolvere i conflitti col cervello che col sangue, ma a volte non c’è scelta. Questa, per lui, era la situazione dopo Sharpeville.
Tuttavia Mandela si è dedicato poi a organizzare soprattutto scioperi e campagne di disobbedienza civile. Si travestiva. Si muoveva clandestinamente. Cosi è sfuggito alla polizia per più di un anno. Fino all’agosto ’62 quando fu arrestato. Lo chiamavano il «montone nero». Nell’Africa del Sud Gandhi aveva lasciato una traccia, degli insegnamenti : giovane avvocato, prima di ritornare in India, aveva difeso con iniziative non violente i diritti dei suoi connazionali.
Mandela non ignorava certo l’eredità di Gandhi. Ma è rimasto un uomo d’azione. I suoi modelli non erano i pacifisti. Lui non lo era. Sarà non violento quando potrà esercitare la violenza e non lo farà. Questa è stata la sua nobiltà. Una nobiltà africana, senza odio e desiderio di vendetta, o di rivalsa, che ne ha fatto un grande leader carismatico.
Nei giorni che seguirono il massacro di Sharpeville, decisivo per Mandela, ho frequentato la società sudafricana. Ho incontrato il liberale Openheimer, padrone delle miniere d’oro. Aveva una visione ben precisa della società, la voleva articolata in imprenditori, lavoratori e consumatori. E quindi si opponeva o criticava l’Apartheid.
Ma ricordo un medico italiano, emigrato per sfuggire negli anni Cinquanta
a quello che considerava l’imminente arrivo al potere dei comunisti a Roma. Egli tenne a Johannesburg una conferenza scientifica per spiegare la diversa natura dal sangue dei neri e dei bianchi. Rammento anche il pittore alla moda che aveva dotato la sua residenza con sofisticati allarmi elettrici. Non li aveva installati per tenere lontano i ladri, ma per non essere sorpreso dalla polizia che poteva coglierlo di notte con l’amante indiana sotto lo stesso tetto. E questo sarebbe stato un delitto punibile con qualche scudisciata. Gli allarmi elettrici consentivano all’amante indiana di ritirarsi sotto un altro tetto, nella baracca costruita appositamente per lei nel giardino. In quei giorni Mandela resisteva nella clandestinità, e noi ignoravamo il suo nome.

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“IL GIGANTE NATO IN CELLA”, di DESMOND TUTU

NON riesco a crederci, eppure è così. Madiba, che ha dato così tanto a noi e al mondo, non c’è più. Sembrava che sarebbe stato sempre con noi. Diventò un gigante per il mondo solo dopo il 1994, quando divenne presidente del Sudafrica.

MA LA sua figura aveva cominciato a ingigantirsi quando era a Robben Island. Già allora veniva descritto in termini che lo facevano sembrare più grande dei comuni mortali. Si vociferava che qualcuno nell’Anc temesse che si sarebbe scoperto che il colosso aveva i piedi d’argilla e quindi volesse “eliminarlo” prima che il mondo rimanesse deluso. Non aveva ragione di aver paura. Mandela superò le aspettative.
Incontrai Madiba una volta, di sfuggita, all’inizio degli Anni ’50. Studiavo per diventare insegnante al Bantu Normal College, vicino Pretoria, e lui era giudice nella gara di dibattito tra la nostra scuola e la Jan Hofmeyr. Era alto, distinto, affascinante. Incredibilmente, non lo avrei più rivisto fino a quarant’anni dopo, il febbraio del 1990, quando lui e Winnie trascorsero la loro prima notte di libertà in casa nostra, a Bishopscourt, un sobborgo di Città del Capo. In quei 40 anni erano successi eventi memorabili: la campagna per la resistenza passiva, l’adozione del Freedom Charter e il massacro di Sharpeville del 21 marzo 1960. Quella strage ci disse che anche se protestavamo pacificamente ci avrebbero sterminati come insetti e che la vita di un nero contava poco.
Il Sudafrica era un Paese dove c’erano cartelli che annunciavano senza vergogna «Vietato l’ingresso agli indigeni e ai cani». Le nostre organizzazioni politiche erano proibite; molti membri erano in clandestinità, carcere o esilio. Abbandonarono la non violenza: non avevano altra scelta che passare alla lotta armata. Fu così che l’Anc creò l’Umkhonto we Sizwe, con Nelson a capo. Mandela aveva capito che la libertà per gli oppressi non sarebbe arrivata come una manna dal cielo e che gli oppressori non avrebbero rinunciato spontaneamente ai loro privilegi. Essere associati a quelle organizzazioni fuorilegge diventò un reato di sedizione: e questo ci porta al capitolo successivo, il processo di Rivonia.
Temevano che Mandela e gli altri imputati sarebbero stati condannati a morte, come chiedeva la pubblica accusa. All’epoca studiavo a Londra: organizzammo veglie di preghiera a Saint Paul per scongiurarlo. I difensori cercarono di convincere Mandela a moderare i toni della sua dichiarazione dal banco degli imputati, temendo che il giudice potesse prenderla come una provocazione. Ma lui insistette che voleva parlare degli ideali per cui aveva lottato, per cui aveva vissuto e per cui, se necessario, era pronto a morire. Tirammo tutti un enorme sospiro di sollievo quando fu condannato ai lavori forzati, anche se significava un lavoro massacrante nella cava di Robben Island.
Qualcuno ha detto che i 27 anni che Mandela ha trascorso in prigione sono stati uno spreco, che se fosse stato rilasciato prima avrebbe avuto più tempo per tessere il suo incantesimo di perdono e riconciliaperdono
zione. Mi permetto di dissentire. Quando Mandela entrò in carcere era un giovane uomo arrabbiato, esasperato da quella parodia di giustizia che era stato il processo di Rivonia. Non era un pacificatore. Dopo tutto era stato comandante dell’Umkhonto we Sizwe e il suo intento era rovesciare l’apartheid con la forza. Quei 27 anni furono cruciali per il suo sviluppo spirituale. La sofferenza fu il crogiolo che rimosse una gran quantità di scorie, regalandogli empatia verso i suoi avversari. Contribuì a nobi-litarlo, permeandolo di una magnanimità che difficilmente avrebbe ottenuto in altro modo. Gli diede un’autorità e una credibilità che altrimenti avrebbe faticato a conquistare.
Nessuno poteva contestare le sue credenziali. Quello che aveva passato aveva dimostrato la sua dedizione e la sua abnegazione. Aveva l’autorità e la forza d’attrazione di chi soffre in nome di altri: come Gandhi, Madre Teresa e il Dalai Lama.
Eravamo tutti incantati l’11 febbraio 1990, quando il mondo si fermò per vederlo emergere dalla prigione. Che meraviglia è stato essere vivi, poter provare quel momento! Ci sentivamo orgogliosi di essere umani grazie a quell’uomo straordinario. Per un attimo tutti abbiamo creduto che essere buoni è possibile. Abbiamo pensato che i nemici potevano diventare amici e abbiamo seguito Madiba lungo il percorso di e riconciliazione, esemplificato dalla Commissione per la verità, da un inno nazionale poliglotta e da un governo di unità nazionale in cui l’ultimo presidente dell’apartheid poteva essere il vicepresidente e un “terrorista” il capo dello Stato.
Madiba ha vissuto quello che ha predicato. Non ha forse invitato il suo ex carceriere bianco come ospite d’onore alla cerimonia d’inaugurazione della sua presidenza? Non è forse andato a pranzo con il procuratore del processo di Rivonia? Non è forse volato a Orania, l’ultimo avamposto afrikaner, per prendere un tè con Betsy Verwoerd, la vedova del sommo sacerdote dell’ideologia dell’apartheid? Era straordinario. Chi può dimenticare quando si spese per conservare l’emblema degli Springboks per la nazionale di rugby, odiatissima dai neri? E quando, nel 1995, scese sul campo di gioco all’Ellis Park con una maglia degli Springboks per consegnare nelle mani del capitano Pienaar la coppa del mondo di rugby con la folla, composta soprattutto da bianchi afrikaner, che scandiva «Nelson, Nelson»?
Madiba è stato un dono straordinario per noi e per il mondo. Credeva ferventemente che un leader è lì per guidare, non per esaltare se stesso. In tutto il mondo era un simbolo indiscusso di perdono e riconciliazione, e tutti volevano un po’ di lui. Noi sudafricani ci crogiolavamo nella sua gloria riflessa.
Ha pagato un prezzo pesante per tutto questo. Dopo i suoi 27 anni di prigionia è arrivata la perdita di Winnie. Quanto adorava sua moglie! Per tutto il tempo che sono stati in casa nostra, seguiva ogni suo movimento come un cucciolo adorante. Il loro divorzio fu per lui un colpo durissimo. Graça Machel è stata un dono del cielo.
Madiba si preoccupava davvero per le persone. Un giorno ero a pranzo con lui nella sua casa di Houghton. Quando finimmo di mangiare, mi accompagnò alla porta e chiamò l’autista. Gli dissi che ero venuto da Soweto con la mia auto. Pochi giorni dopo mi telefonò: «Mpilo, ero preoccupato per il fatto che guidi e ho chiesto ai miei amici imprenditori. Uno di loro si è offerto di spedirti 5.000 rand al mese per assumere un autista!». Spesso sapeva essere spiritoso. Quando lo criticai per le sue camice pacchiane mi rispose: «E lo dice uno che gira con la sottana!». Mostrò grande umiltà quando lo criticai pubblicamente perché viveva con Graça senza essere sposato. Alcuni capi di Stato mi avrebbero attaccato, lui mi invitò al suo matrimonio.
Il nostro mondo è un posto migliore per aver avuto una persona come Nelson Mandela e noi in Sudafrica siamo un po’ migliori. Come sarebbe bello se i suoi successori lo emulassero e se noi dessimo il suo giusto valore al grande dono della libertà che ha conquistato per noi a prezzo di tanta sofferenza. Ringraziamo Dio per te, Madiba. Che tu possa riposare in pace e crescere in gloria.
(Copyright Mail and Guardian Traduzione di Fabio Galimberti)

La Repubblica 07.12.13