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“L’albero della libertà”, di Walter Veltroni

Ora che Nelson Mandela se n’è andato, dopo una lunga travagliata agonia, sembra quasi impossibile che non ci sia più. In Sud Africa lo chiamavano «padre». A me ha sempre fatto venire in mente un albero, uno di quei grandi alberi africani enormi, solidi pieni di radici e di rami. A quell’albero un popolo intero si è aggrappato. A quell’albero il mondo intero ha guardato con ammirazione.
Non è stato sempre così, ci sono stati decenni in cui l’apartheid regnava incontrastato, in cui Nelson era «soltanto» il detenuto numero 46664. Chiuso dentro una cella di pochi metri quadrati, sottoposto ad un controllo feroce, a terribili pressioni e violenze ha saputo cambiare le cose. Mandela è davvero un simbolo.

La storia ha voluto che la sua liberazione abbia seguito di poco la caduta del muro di Berlino: un secolo che ave- va conosciuto due guerre mondiali, l’orrore dei campi di sterminio si concludeva con due eventi simbolici di riconquista della libertà.

L’INCONTRO

Ho conosciuto e incontrato Mandela diverse volte, occasioni ufficiali che hanno ben presto lasciato il passo a incontri più ravvicinati e informali. L’ho visto in Sud Africa, nella sua casa, fra la sua gente.

Mi ha sempre colpito il suo sorriso: chi è davvero forte è dotato di una umanità profonda. E in quel sorriso c’erano tutti e due gli elementi. Credo che soltanto lui poteva riuscire nel «miracolo» del nuovo Sud Africa. Portare (con la collaborazione di Frederik Willem de Klerk, il presidente bianco che volle la svolta della fine dell’apartheid) un paese fuori da decenni di odio e di divisione senza risentimento e senza violenze. Ma anche senza oblio.

In fondo le strade facili c’erano: c’era quella della vendetta (chi avrebbe avuto la forza morale di condanna- re dopo le violenze, i soprusi, le uccisioni, il regime della persecuzione e della separazione forzata?), quella di dividere per sempre il Paese, bianchi là e neri qua.

Lui ha indicato e perseguito la strada più difficile, ma anche quella più ambiziosa e giusta. Ha saputo unire il suo popolo, la sua gente. Ha combattuto contro il proposito di dominio dei bianchi sui neri, ma anche contro quello dei neri sui bianchi. È stato un uomo di lotta e di pace.
L’hanno chiamata «rivoluzione arcobaleno». Una rivoluzione certo lo è stata. E Mandela l’ha costruita con le sue parole e con l’esempio. Quasi tre decenni di galera non l’hanno piegato né nel fisico, né nella sua profonda umanità.

Ha preso per mano la trasformazione sapendo bene che non si trattava di dimenticare, bensì di ricostruire quel- lo che era davvero successo (per farlo erano state fondate delle strutture con un nome davvero illuminante: Com- missioni per la Verità e la Riconciliazione) e di guardare avanti.

Certo, quell’immenso paese vive ancora contraddizioni e problemi anche drammatici, ma è stato uno dei protagonisti dei grandi progressi del mondo globalizzato.

Per ventisei anni chiuso nella sua cella Nelson Mandela appariva al mon- do come un punto luminoso che i tiranni volevano tenere oscurato. Era un faro per i neri di Soweto, delle città minerarie dei terribili ghetti urbani, era un simbolo per tutto il mondo. In America, in Europa attorno al suo nome si raccoglieva tanta gente nelle manifestazioni, era il suo simbolo a impegnare intellettuali ed artisti.

La spinta per la sua liberazione crebbe come crebbe la mobilitazione per la libertà del Sud Africa dal razzismo e dall’apartheid. E lui, rinchiuso in cella, maltrattato e blandito perché si piegasse non cedeva di un millimetro.

Mi raccontò che in carcere aveva letto molto, incessantemente, aveva imparato anche l’afrikaneer la lingua dell’oppressione. C’era una poesia che aveva aiutato questa fermezza, i versi di William Ernest Henley, un poeta inglese dell’Ottocento che avevano per titolo «Invictus». Quel titolo divenne anche un film a lui dedicato. Mi ha colpito, ora che Mandela non c’è più, rileggerne gli ultimi versi:

Non importa quanto stretto sia il passaggio, Quanto piena di castighi la vita, Io sono il padrone del mio destino: Io sono il capitano della mia anima.

L’Unità 07.12.13