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“Sul valore dell’esperienza”, di Benedetto Vertecchi

Proviamo, se possibile, a riflettere attorno alla condizione degli insegnanti liberi dagli strati di melassa che nel tempo si sono depositati attorno alla questione, e che ormai sono così spessi che non si riesce più a capire di che cosa si stia parlando. Per cominciare, c’è bisogno di individuare gli elementi che definiscono la professione e che non consentono di confonderla con altre, anche se per qualche aspetto si possono verificare delle sovrapposizioni. Si può procedere comparando le nozioni di insegnante che si ricavano dall’analisi di ciò che essi fanno nelle diverse culture in cui si esplica la loro attività: ebbene, gli elementi di contorno sono tanti, ma quello centrale è sempre lo stesso, ed è costituito dallo svolgimento, per delega, del compito di istruire.

Ciò premesso, occorre stabilire se il compito di istruire possa essere svolto da chiunque o solo da chi possieda determinate caratteristiche. Senza entrare nel merito di specifiche interpretazioni del compito degli insegnanti, che assumono significato in contesti sociali e culturali determinati, l’aspetto caratterizzante della professione è costituito dal fatto che chi insegna deve dominare un insieme di conoscenze almeno un po’ superiore a quello di chi impara. In altre parole, un requisito preliminare per svolgere la professione di insegnante è costituito dal possesso di conoscenze, considerate importante da chi conferisce la delega, in campi più o meno ampi del sapere. Occorre tuttavia anche essere capaci di condividere con altri (ossia con gli allievi) il sapere di cui si dispone. Proseguendo nel metodo che abbiamo adottato, quello di individuare gli elementi costitutivi della professione nella loro manifestazione meno condizionata da fattori locali, la capacità di condivisione del sapere si può collegare a una assunzione implicita di tipo sociale, o ad una esplicita derivante da apprendimento. Ovviamente, sono possibili soluzioni intermedie.

Si ha un’assunzione implicita quando il sapere da condividere è immanente in un insieme determinato di individui. In tal caso chi già possiede determinate conoscenze le trasmette a chi non le possiede, seguendo procedimenti imitativi di esperienze già acquisite (possono essere le pratiche esoteriche o i processi di cooptazione in gruppi più o meno consistenti). Le pratiche imitative possono consistere in comportamenti collettivi (vi partecipano i membri adulti dell’intero gruppo sociale), oppure essere delegati. Nel primo caso la condivisione del sapere corrisponde all’adempimento di un dovere sociale mentre, se si tratta di comportamenti delegati, ci si trova di fronte a pratiche professionali. Chi assume la delega deve assicurare che siano perseguiti gli intenti del delegante: per lo svolgimento di tale compito riceve un corrispettivo. La padronanza del sapere da condividere costituisce una precondizione per l’esercizio della professione degli insegnanti, mentre il contenuto professionale vero e proprio è rappresentato dalla capacità di corrispondere alla delega.

Nella storia dell’educazione le pratiche educative formali hanno per lo più riprodotto l’esperienza d’istruzione fruita da chi, nel seguito, si sarebbe dedicato all’insegnamento. I procedimenti imitativi hanno incominciato a mostrarsi inadeguati col crescere rapido da un lato della domanda d’istruzione, dall’altro del numero di persone che con la loro attività avrebbero dovuto soddisfarla. I riferimenti imitativi hanno rivelato la loro insufficienza, anche perché non adeguatamente sostenuti dagli atteggiamenti di frazioni consistenti della popolazione che, avendo fruito di esperienze limitate di educazione formale (e, talvolta, non ne avendone fruito per niente) non erano in condizione di concorrere a rafforzare l’azione della scuola. A quel punto hanno incominciato a svilupparsi, e nei casi migliori a sovrapporsi, due diverse linee per il conseguimento di un livello desiderato di capacità professionali: la prima è consistita nell’assumere come riferimento le esperienze professionali già compiute, incominciando da primi, incerti tentativi fino a conseguire una scioltezza d’azione progressivamente maggiore. L’altra linea ha fatto invece riferimento a un’accumulazione di conoscenze e di modelli operativi prodotti all’esterno della scuola, attraverso progetti di ricerca, raccolta di documentazione, studio di casi per qualche ragione rilevanti, sperimentazioni didattiche, ricorso a modelli innovativi di organizzazione eccetera. La contaminazione tra le due linee, dove è avvenuta, ha consentito di compiere scelte consapevoli, e di orientare le esperienze degli insegnanti al soddisfacimento di specifiche esigenze, con un effetto di accelerazione nell’acquisizione di un livello desiderato di capacità professionali. Ma una contaminazione virtuosa richiede che il medesimo impegno sia posto nella valorizzazione delle esperienze e nella ricerca educativa. Riflettere sulle esperienze è una condizione per interpretare il divenire dell’educazione, ma spetta alla ricerca conferire solidità alle interpretazioni.

Non basta, tuttavia, richiamare l’esperienza per conferire credito al profilo di una professione. Di esperienza si può, infatti, parlare in molti modi, e le affermazioni che a essa fanno riferimento possono essere il risultato di semplici procedimenti cumulativi o di più complesse inferenze. Se ci si accontenta di procedere per aggiunta di casi, la conoscenza che crediamo di aver acquisito non resiste alla contraddizione. Se, invece, l’esperienza è soggetta a una revisione critica, possiamo cogliere le trasformazioni che intercorrono nel tempo, rivedere le interpretazioni già formulate alla luce di nuove conoscenze, definire ipotesi innovative.

In Italia alla professione degli insegnanti è stato riconosciuto un più ampio credito sociale quando era più nitidamente definito quale fosse l’intento perseguito tramite la loro opera. Il credito si è ridotto quando il profilo professionale, considerato nella sua essenzialità, secondo i criteri che sono stati indicati, ha perso nitidezza, per l’aggiunta di altri compiti, molti dei quali riconducibili a campi di conoscenza estranei al contenuto della delega sociale sulla base della quale si pratica l’insegnamento. Per svolgere tali compiti, non di rado disponendo solo di riferimenti di senso comune, è stato necessario ridurre l’attenzione nei confronti del compito principale. Agli insegnanti è stato chiesto di svolgere funzioni vicarie della società civile, in settori come i comportamenti collettivi, la moralità, la solidarietà eccetera. A un profilo i cui tratti principali erano costituiti dal repertorio delle conoscenze possedute se ne è sostituito uno centrato sulla promozione di ideologia. La dilatazione delle responsabilità è avvenuta solo in senso estensivo, con un effetto di diminuzione progressiva dello spessore dei messaggi rivolti agli allievi. Sono cresciute, infine, ed è l’aspetto più grave della crisi che ha investito la professione degli insegnanti, le contraddizioni tra le esibizioni di voler essere che costituiscono ormai una parte di rilievo dell’attività delle scuole e le pratiche sociali: si critica il consumismo in una società consumista, si predica l’onestà in un contesto di corruzione dilagante, si esorta alla pace in uno scenario dominato dalla violenza, si richiede di apprendere quando tutto lascia intendere che sono altri i valori a cui si riconosce maggiore rilevanza. Chiunque potrebbe continuare a elencare le contraddizioni nelle quali si dibatte l’educazione scolastica. Ma sarebbe un esercizio sterile se non s’individuasse un punto dal quale avviare la risalita. È mia opinione che quel punto sia rappresentato dall’esperienza degli insegnanti, considerata nell’ambito della contaminazione virtuosa che prima ho richiamato.

da Tuttoscuola 08.12.13