attualità, politica italiana

In fila con il popolo del Pd “Siamo qui nonostante tutto al partito serve una scossa”, di Sebastiano Messina

Fa freddo, al gazebo di piazza Mazzini, e ogni tanto piove pure. Fa freddo, ma dev’essere un’energia pulita, quella di un’inaspettata passione civile su cui nessuno avrebbe scommesso, a scaldare i volti delle cento persone che alle sette di sera sono in fila per imbucare la scheda nell’urna di cartone, gente paziente e decisa che guarda le luci delle bancarelle di Natale che illuminano la piazza eppure se ne sta qui, in silenzio, aspettando che arrivi il suo turno per votare Renzi. O Cuperlo. O Civati. Sono così tanti che alle sei di sera dal gazebo hanno lanciato l’Sos: «Mandateci subito altre schede, o dovremo chiudere il seggio».
Le file in realtà sono due. La prima è per gli iscritti e per chi si è prenotato online: si fa presto, solo sono in otto. Ma è la seconda quella lunga, così lunga che comincia già da via Oslavia e poi gira ad angolo retto. Sono 96, ci metteranno almeno un’ora ad arrivare all’urna di cartone al centro del gazebo bianco. Un mendicante la percorre al contrario, senza troppa convinzione e con ancor meno fortuna, un mattacchione con il cappello calato sulla fronte la costeggia mormorando «Votate Berlusconi, ha salvato l’Italia…», una troupe televisiva sta aspettando Massimo D’Alema che abita proprio da queste parti. I giovani, a dire la verità, non sono tanti: l’età media è sui cinquanta. E per ogni iscritto vengono a votare dieci non iscritti. «Ma la regola è questa» sospira Susanna Mazzà, la segretaria del circolo Mazzini. Anche a lei però luccicano gli occhi guardando una fila che non si è mai fermata, dalle otto del mattino. Anche se in mezzo a quella imprevista fiumana di votanti ci sono anche degli imbucati. «Sì, sono venuti anche gli elettori di destra. Ne ho contati una cinquantina, su mille. Uno su venti. Te ne accorgi quando gli chiedi di firmare il modulo con cui si dichiara di essere elettori del Pd. Borbottano, mormorano, e poi firmano solo per votare. Alcuni me l’hanno detto chiaro e tondo: io voto Berlusconi, sono qui per votare contro Renzi».
La fila avanza lentamente, molto lentamente. Ma cosa si aspetta, chi sta un’ora al freddo solo per imbucare la sua scheda, da queste primarie dell’Immacolata? Andiamolo a chiedere alla fila più lunga, quella dei non iscritti. «Eh, bisogna smuovere le cose» risponde Rita, che fa il medico e non sempre ha votato a sinistra. «Li ho votati tutti, sa?». Anche Berlusconi? «Beh, proprio tutti no» sorride. zMa ho votato Dc, ho votato i radicali, ho votato i liberali.
Ma adesso basta, mi aspetto energia nuova. Da Renzi, si capisce ». «Spero che vedano quanti siamo e si mettano una mano sulla coscienza» dice Elda, che ha i capelli bianchi e si appoggia a un bastone. «Già – le fa eco dietro di lei Elio, pensionato dello Stato – speriamo che chi governa mangi un po’ di meno». Un coro di consensi sottolinea queste parole, e lui rivela la sua speranza: «Ci vorrebbe un accordo tra Renzi e Civati per combattere l’apparato, che ormai è vecchio come me ».
L’altra volta qui Bersani stravinse, ma oggi tira un buon vento per Renzi. Vota per lui Stefano, sessantenne ingegnere informatico:
«E’ l’unico che può vincere». Vota per lui Laura, ex dipendente comunale: «Speriamo che stavolta c’indoviniamo, perché i nostri figli sono tutti disoccupati». E per lui votano anche le due ragazze alte e brune – Flavia e Vittoria, ventitreenni studentesse di giurisprudenza – che da quando sono arrivate hanno attirato gli sguardi furtivi di tutti gli uomini in fila. «Siamo qui – spiegano – perché speriamo che il Pd riesca ad avere i numeri per governare da solo, e Renzi ha la grinta per riuscirci».
La fila è lunga, e l’attesa incoraggia il dibattito last minute. «Io voterò per Renzi, ma spero che non vinca con troppo vantaggio altrimenti si monta la testa» dice Cristina, consulente di spettacolo. «Allora vota Cuperlo!» ribatte al volo Laura, insegnante. «Eh no, perché dobbiamo scegliere chi ha più chances di vincere».
In fondo alla fila, silenzioso, c’è Danilo, 56 anni, funzionario statale. È taciturno, quasi triste. Perché? «Oggi mi sono messo la giacca di mio padre, che è stato iscritto al Pci dal 1944 fino a quando è morto” racconta, quasi sottovoce. “E sono venuto con l’Unità in tasca, come si faceva una volta. Non le dico per chi voto, le dico che c’è un candidato che sarebbe la morte del Pd come partito di sinistra, se vincesse». E se vince lui? «Allora ci cercheremo un altro partito, alle prossime elezioni. Un partito di sinistra».
Ognuno ha una sua personalissima motivazione, spesso a prescindere dal candidato che voterà, tutti sono in fila senza forse rendersi conto di quanto sorprendente risulterà la somma dei loro gesti per chi prevedeva un calo dei votanti, dopo il flop di Bersani e la fine delle larghe intese. «Io sono venuto – dichiara Maurizio, settantenne con la barbetta e il berrettino da sciatore – per dare forza alle persone che hanno fatto questo partito. E mi aspetto un cambiamento. Ma a sinistra: perciò voto Cuperlo». «La svolta a sinistra può darla meglio Civati» gli ribatte Laura, giovane avvocato con gli occhiali da sole. E se invece vince Renzi? Lei ci pensa un attimo, poi risponde: «Sarei delusa. Però pazienza, se vince Renzi tutti con Renzi. Altrimenti non ne usciamo più».

La Repubblica 09.12.13

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Renzi, un ciclone da tre milioni “Adesso sono il vostro Capitano e il tempo degli inciuci è finito”, di CURZIO MALTESE

LA STORIA non accade mai come s’immagina. Avrebbe potuto essere una bella vittoria annunciata, quella di Matteo Renzi, con qualche se e ma.
E INVECE nella notte fiorentina prende l’aria di quei cicloni dal nome femminile che spazzano intere regioni. Man mano che arrivano i dati sull’affluenza e le percentuali nei quartier generale di Renzi, in via Martelli accanto al Duomo, e poi nel teatro tenda dell’Obihall, si sparge un clima misto di euforia e terrore. «Ma è proprio vero? » si chiedono i venti fedelissimi l’un l’altro, increduli. La Mattea, la Leopolda, come la vogliamo chiamare, ha spazzato via in un giorno la classe dirigente di sinistra di vent’anni e l’intera seconda repubblica.
Da oggi comincia l’era di Matteo Renzi, che può durare pochi mesi o i prossimi vent’anni. Diciamo che in pochi mesi si capirà se potrà durare un ventennio. Già così, è qualcosa di mai visto, un’autentica rivoluzione. Renzi è più giovane di Tony Blair o di Bettino Craxi, per abbassare il tiro, quando presero in mano il Labour e i socialisti italiani, più piccolo di Felipe Gonzales premier spagnolo, ha la metà degli anni del suo rivale di domani, Berlusconi. Uno di 38 anni che diventa il personaggio centrale della vita politica di una grande democrazia, in qualsiasi epoca, è un evento storico. Nell’Italia delle eterne gerontocrazie è un miracolo.
L’incredulità degli stessi pretoriani di Renzi, amici, collaboratori, qualche assessore, i deputati Boschi, Bonifazi, Nardella, è reale. Tanto più che per buona parte della giornata erano arrivate notizie inquietanti, segnalazioni imbufalite di sostenitori allontanati o depistati dai seggi. Il caso più clamoroso è quello di Dario Franceschini, ex segretario del partito e ministro in carica, non riconosciuto al seggio di casa, a Ferrara, ma se ne possono raccontare a centinaia di piccole o grandi porcate dell’apparato. Per ore e ore lo staff raccoglie i casi, in vista di possibili ricorsi, poi arriva il risultato reale e i fogli volano per aria come coriandoli festosi. Lui, il vincitore, è stato l’unico a non perdere mai la testa. Con una calma tanto olimpica quanto esibita, Matteo non sposta di una virgola gli impegni di una domenica da italiano normale. Alle 10 va a votare al seggio, con un piccolo show, subito dopo corre al campo di calcio dove si esibisce il figlio di 11 anni, Francesco, alle 12,30 si blinda in salotto per seguire Roma-Fiorentina, con tanto di sciarpa viola al collo. Nel pomeriggio lima il discorso della vittoria e telefona ai parenti, a cominciare da papà Tiziano, giustamente in pensiero. In tre ore arrivano una decina di chiamate dalla stampa di mezzo mondo, Washington Poste Le Monde, Financial Timese Frankfurter, e a tutti risponde di no. Alle 18 è puntuale al rito dell’accensione dell’albero di Natale in piazza del Duomo, poi passa dal comitato di via Martelli, a tranquillizzare la truppa che è sull’orlo di una crisi di nervi.
Con Renzi non si capisce mai se sei davanti a un genio o a un pazzo. Uno che a meno di quarant’anni ha tanta fretta di diventare segretario del Pd e subito dopo presidente del consiglio italiano, due missioni impossibili, presenta ai comuni mortali un tratto marziano. Almeno la prima carica, quella per cui è stato eletto oggi, la ricoprirà poco e nulla. Governare il Pd, come direbbe quel tale, non è difficile: è inutile. Chi vi ha provato in questi anni non si è mai più ripreso. L’opinione generale, per quanto non ufficiale, della corte renziana è che il capo andrà a Roma un lunedì a settimana, a cominciare da questo. Per il resto viaggerà fra Firenze e il resto d’Italia per preparare la campagna elettorale di primavera. Se vi erano dubbi, da oggi non ne è rimasto uno. Il plebiscito a Renzi è soprattutto un voto contro. Contro la nomenklatura del centrosinistra,
che dopo vent’anni di errori e complicità col berlusconismo, non è stata soltanto liquidata, ma umiliata. Il 18 per cento a Gianni Cuperlo, aldilà della qualità personale del personaggio, significa che per l’uomo di D’Alema, Fioroni e compagnia non ha votato nemmeno l’apparato. L’80 e rotti per cento del popolo di sinistra, fra Renzi e Civati, non vede l’ora di rottamare senza incentivi il vecchio gruppo dirigente. Cosa che il sindaco di Firenze mette subito in chiaro: «Oggi non è la fine della sinistra,
è la fine di un gruppo dirigente della sinistra ».
Per esteso, la sfiducia si trasmette anche al governo delle larghe o piccole intese, che della nomenklatura è il regalo finale. Se pure Renzi avesse avuto un piano B, più morbido nei confronti del governo, e non sembra davvero averlo mai avuto, non potrebbe in ogni caso metterlo in pratica. Il mandato ricevuto dagli elettori del Pd è chiaro e inequivocabile. Deve andare al più presto alla partita finale e chiudere la stagione della seconda repubblica, oppure perire, tertium non datur. Lo sa anche lui: «Non ci sono più alibi. Non possiamo aspettare che arrivi qualcun’altro a lamentarsi di noi».
Non deve neppure farlo cadere Renzi, il governo, basta lasciar fare alla strana alleanza Grillo-Berlusconi. E lui pensando a questa partita promette: «Mi avete dato la fascia di capitano, io non farò passare giorno senza lottare su ogni pallone. E i teorici dell’inciucio non brindino: vi è andata male».
Riuscirà nell’impresa il nostro eroe? Anni fa abbiamo conosciuto un ragazzo appena trentenne, presidente della provincia di Firenze, un ente inutile che lui stesso oggi vuole abolire. Avrebbe dovuto essere un incontro di pochi minuti, ma Renzi riuscì ad affascinare il cronista per tre ore illustrando le meraviglie del recupero della Galleria delle Carrozze, un ex garage trasformato in spazio espositivo. Non avevo mai visto un venditore tanto bravo dai tempi del primo Berlusconi. E neppure un politico tanto fortunato. Qualche tempo più tardi diventò sindaco di Firenze vincendo le primarie della sinistra per 400 voti, l’equivalente di un caseggiato, grazie alla demenziale trovata del partito di candidare un dalemiano e un veltroniano. Ed eccolo, ora è sul palco dell’Obihall, a ringraziare la moglie Agnese («e lei sa il perché») e a tenere il suo discorso obamiano davanti alle telecamere del pianeta, alla grande stampa internazionale che l’ha definito la giovane speranza della vecchia Europa, in un clima da convention americana. «Debbo anzitutto dire grazie a molte persone…». Uno così può arrivare davvero ovunque. E come dice lui per chiudere, «il bello deve ancora venire».

La Repubblica 09.12.13

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“Da Berlinguer a Matteo la sinistra sdogana il leader post-ideologico”, di FILIPPO CECCARELLI
QUANDO si dice che Matteo Renzi è il primo leader compiutamente post-ideologico della storia politica italiana si intende qualcosa che trascende il puro dato anagrafico.
Certo, il vincitore è venuto al mondo nel gennaio del 1975: Berlinguer stava per trionfare alle amministrative, di lì a poco che Zaccagnini avrebbe sostituito Fanfani; e se Craxi era ben lungi dal prenotare la guida del Psi, il dottor Berlusconi costruiva palazzine in Brianza.
Questo per dire che post-ideologico non è una parolaccia, ma una circostanza che colloca Renzi ben oltre gli schemi formatisi nel vivo delle culture politiche del secolo scorso, in una dimensione del tutto inedita e specialmente evoluta, nel senso che dentro di lui ci sono e agiscono molti più indizi, simboli, stili, linguaggi, miti, tecniche, ibridazioni e contagi di quanti se ne possano forse oggi ammettere e comunque riconoscere.
Per cui dopo la vittoria rischia di suonare eccentrico, o addirittura malizioso, ma il trentottenne che ieri ha conquistato il Pd all’insegna del cambio generazionale reca senz’altro in sé l’eredità di La Pira e si presenta avendo alle spalle il ritratto di Mandela, dietro di lui senti gli U2 e i comitati per Prodi, Sanremo, Miss Italia, la Nazionale e le stragi di mafia, la globalizzazione, Bartali e Jovanotti («la Grande Chiesa che parte da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa»), ma quale esemplare di una nuova razza di leader, ha introiettato anche la lezione dei suoi stessi avversari. Che sono Berlusconi e Grillo.
Sui complessi rapporti che legano la vicenda del primo al renzismo esiste una ormai vasta letteratura, per lo più polemologica, rinverdita – l’accusa di «continuità con il ventennio berlusconiano » – pure nell’ultimo scorcio delle primarie. Non esiste d’altra parte ufficiale conferma sulla frase con cui il Cavaliere, all’apice del potere, congedò il Sindaco dopo il celebre pranzo di Arcore: «Ti apprezzo perché mi assomigli ».
Ma tale apprezzamento risulta a tal punto acclarato nel nucleo di cristallo della cerchia berlusconiana (oltre a Marina e Barbara, Dell’Utri e Signorini, Briatore e la Santanché) che dinanzi all’ennesimo entusiasmo Renzi si è sentito in dovere di raffreddarlo: «Bene, adesso aspettiamo l’endorsementdi Jack lo Squartatore ». La battuta era divertente, ma
valeva solo per quel momento. Nell’interessante cronologia che apre la recentissima biografia di Renzi, «Il Seduttore» (Barbera, euro 15,90), Simona Poli e Massimo Vanni annotano che nel 1994 il futuro leader del centrosinistra esordì partecipando a cinque puntate de «La ruota della fortuna » di Mike Bongiorno, dove vinse 48 milioni in gettoni d’oro. La tv, vedi le ospitate da Maria De Filippi, ma anche e più in generale il mondo delle rappresentazioni, vedi le foto in veste e posa di Fonzie su Chi e il servizio glamour di Marc Hom su Vanity fair, così morbido nel suo bianco e nero da evocare una carica di turbo-seduzione, appunto, a 360 gradi, cioè rivolta sia a maschi che a femmine.
Là dove un tempo c’erano appartenenze e progetti, in gran parte domina oggi il marketing, la ricerca del successo come consenso. Di questo fanno testimonianza il linguaggio calcistico, il culto della «vittoria», così come il «miliardo» di tagli alla politica o il «contratto» con gli italiani. Caratteristica della post-politica è che tutto questo armamentario di inconfessate «acquisizioni» e pretesi «cedimenti» al berlusconismo, tanto più detestati dalla sinistra tradizionalista, consente in realtà a Renzi – che non è mai stato del Pci, propugna una leadership energica e ha sempre evitato di associare la sua figura a simboli e bandiere del Pd – di promuoversi come un prodotto concorrenziale nel campo del centrodestra. Ma non solo.
Il giorno dopo le elezioni, quindi in tempi non sospetti, dinanzi allo sfascio del centrosinistra, un politico acuto e solitamente sorvegliato come Enrico Letta disse: «Di sicuro Renzi sarà la carta del futuro. E su forme di democrazia diretta e partecipazione bisogna riconoscere che Matteo è moderno e decisamente competitivo con Grillo».
Chissà se Letta lo ripeterebbe oggi. E tuttavia non pare un caso che il Renzi competitivo con Berlusconi lo sia anche, se non di più, nei confronti di Beppe Grillo, che lo chiamava «l’ebetino», po «Cipollino Renzie» e poi «il prendinculo degli italiani». Ebbene, lui, sebbene permaloso, non si è mai offeso; né pare che mai abbia invocato le categorie del fascismo e dello squadrismo.
Nel Pd non mancano quelli su tutti Franco Marini – che hanno accusato il futuro leader del Pd di essere «come Grillo». Più sofisticato, e senza escludere contaminazioni berlusconiane, D’Alema ha sostenuto che «Renzi e Grillo vendono la stessa merce ». Ma proprio tale osservazione, cui fa da contrappunto quanto detto da Antonio Ricci («Renzi è un venditore straordinario, a livello di Berlusconi giovane») a suo modo conferma le caratteristiche di leader post-ideologico. Che è appunto quella di puntare al segmento elettorale del M5S, senza alcun pregiudizio, impossessandosi dei suoi temi: costi della politica, piattaforme digitali, primato dei social.
Fatti propri questi argomenti, secondo le previsioni, il leader cinquestelle «si sgonfierà come palloncino». Al che Grillo, forse impensierito da quell’invasione di campo, ha risposto che l’odierno leader del Pd soffriva di «invidia penis». Quest’ultima considerazione porterebbe lontano, perciò ci si limita qui a ricordare che dopo la selvaggia psico-diagnosi Grillo si riservò di arruolarlo lui, Renzi: «Se si comporta bene, valuterò la sua iscrizione al M5S come attivista». Certo il tono suonava padronale. Ma nella post- politica l’arroganza premia.

La Repubblica 09.12.13