attualità, memoria

“Il mio Madiba, Lincoln dell’Africa”, di Barack Obama

È difficile fare l’elogio di qualsiasi uomo, racchiudere nelle parole non soltanto i fatti e le date che ne hanno segnato la vita, ma la verità fondamentale e intima di quella persona.Le sue gioie profonde e i suoi dolori; i momenti di pace e le qualità che ne hanno illuminato l’anima. Quanto maggiormente è difficile farlo nel caso di un gigante della storia, che ha messo una nazione intera in marcia verso la giustizia e così facendo ha messo in marcia miliardi di persone in tutto il mondo!
Nato durante la Prima guerra mondiale, molto lontano dai corridoi del potere, dopo un’infanzia trascorsa a fare il pastore di bestiame e a imparare dagli anziani della sua tribù Thembu, Madiba sarebbe emerso come l’ultimo grande liberatore del XX secolo. Come Gandhi, egli avrebbe guidato un movimento di resistenza, un movimento che agli esordi aveva ben poche prospettive di successo. Come King, egli avrebbe dato voce forte e potente alle richieste degli oppressi e alla necessità morale di giustizia razziale. Avrebbe affrontato una prigionia disumana, iniziata all’epoca di Kennedy e Krusciov e conclusasi nel periodo finale della Guerra Fredda. Uscendo dalla prigione, senza la forza delle armi, al pari di Lincoln avrebbe unificato il Paese proprio mentre esso rischiava di lacerarsi.
Tenuto conto della sua incredibile vita e dell’adorazione che si è guadagnato così meritatamente, si sarebbe tentati di ricordare Nelson Mandela come un’icona, sorridente e serena, distaccata dalle occupazioni ordinarie di uomini comuni. Ma Madiba stesso si è sempre opposto strenuamente a questo ritratto senza vita. Al contrario, egli ha sempre insistito per condividere con noi i suoi dubbi e i suoi timori; i suoi errori di valutazione insieme alle sue vittorie. «Non sono un santo — diceva — a meno che non si pensi che un santo è un peccatore che continua a mettersi alla prova».
È proprio perché egli riusciva ad ammettere di non essere perfetto — e perché sapeva essere così pieno di buonumore, addirittura di furbizia, malgrado il pesante fardello che trasportava — che noi lo abbiamo amato. Non era un busto di marmo. Era un uomo fatto di carne e di sangue, un figlio e un marito, un padre e un amico. Ecco perché abbiamo appreso così tante cose da lui. Ecco perché possiamo apprenderne ancora molte altre da lui. Perché niente di ciò che egli è riuscito a raggiungere era scontato. Nell’arco della sua vita abbiamo visto un uomo guadagnarsi un posto nella storia lottando, con avvedutezza, persistenza e fede. Egli ci dice che cosa è possibile non soltanto nelle pagine di polverosi libri di storia, ma anche nelle nostre stesse vite.
Mandela ci ha insegnato il potere dell’azione, ma anche delle idee; l’importanza della ragione e delle giuste argomentazioni; la necessit à di studiare non soltanto coloro con i quali vai d’accordo, ma anche coloro con i quali non vai d’accordo. Mandela ha capito che le idee non possono essere imprigionate tra le mura di un carcere, né messe a tacere dalla pallottola di un cecchino. Egli ha trasformato il suo processo nella denuncia dell’apartheid grazie alla sua eloquenza e alla sua passione, ma anche grazie ai suoi studi e alla sua formazione di avvocato. Ha trascorso i decenni passati in prigione a rendere più affilati i suoi ragionamenti, ma anche a diffondere la sua sete di sapere agli altri del movimento. E ha appreso la lingua e le usanze dei suoi oppressori, così da poter riuscire meglio un giorno a comunicare loro in che modo la loro libert à dipendesse dalla sua.
Infine, Mandela ha compreso lo spirito umano e come esso sia legato a quello di tutti. C’è una parola in Sudafrica, Ubuntu, che descrive e condensa questo suo immenso dono: egli ha saputo vedere che siamo tutti legati gli uni agli altri in modi invisibili e che sfuggono allo sguardo; che esiste unione nel genere umano; che possiamo conseguire il nostro pieno successo condividendolo con gli altri e prendendoci cura di chi abbiamo attorno. Non possiamo sapere quanto di ciò fosse già innato in lui, o quanto si sia plasmato e forgiato nella sua buia cella solitaria. Ma ne ricordiamo i gesti, piccoli e grandi, come presentare i suoi carcerieri come ospiti d’onore alla sua cerimonia di insediamento come presidente; scendere in campo indossando l’uniforme degli Springbok; aver trasformato una tragedia della sua famiglia nell’invito a lottare contro l’Hiv/Aids. Questi suoi gesti piccoli e grandi hanno svelato tutta la sua profonda empatia e comprensione. Egli non soltanto ha incarnato l’Ubuntu, il senso di umanità. Ha insegnato a milioni di persone a trovare dentro di sé quella stessa verità. C’è stato bisogno di un uomo come Madiba per liberare non soltanto il carcerato, ma anche il carceriere; per dimostrare che ci si deve fidare degli altri così che gli altri si fidino di te; per insegnare che riconciliarsi non significa ignorare un passato crudele, ma che riconciliarsi è un mezzo per opporre a quel crudele passato l’inclusione, la generosità e la verità. Ha cambiato le leggi, ma anche i cuori.
Per il popolo sudafricano, per coloro che egli ha ispirato in tutto il pianeta, il trapasso di Madiba è giustamente motivo di lutto, e occasione per celebrarne la vita eroica, ma io credo che la sua morte debba anche invogliare ciascuno di noi a un’autoriflessione. Con onestà, e indipendentemente dalla nostra posizione o dalle circostanze della nostra vita, dobbiamo chiederci: quanto bene ho applicato queste lezioni nella mia stessa vita?
Questa è una domanda che io rivolgo a me stesso, come uomo e come presidente. Sappiamo che come il Sudafrica anche gli Stati Uniti hanno dovuto superare secoli di oppressione razziale. Come è stato vero qui, ci sono voluti i sacrifici di un numero incalcolabile di persone, note e ignote, per vedere l’alba di un giorno nuovo. Michelle e io abbiamo beneficiato di quella lotta. Ma in America e in Sudafrica, e in molti Paesi di tutto il pianeta, non possiamo permettere che il progresso oscuri il fatto che il nostro compito non può dirsi concluso. Le lotte che puntano alla vittoria dell’eguaglianza e al suffragio universale possono non essere caratterizzate da quella stessa drammaticità e limpidezza morale di quelle combattute in precedenza, ma non per questo sono meno importanti. Perché ancora oggi in tutto il mondo vediamo bambini patire la fame e soffrire per le malattie, vediamo scuole fatiscenti e scarse prospettive per il futuro. Ancora oggi in tutto il mondo uomini e donne sono messi in prigione per le loro idee politiche e sono perseguitati per il loro aspetto fisico, per la loro pratica devozionale, per la persona che amano.
Anche noi dobbiamo agire per il bene della giustizia. Anche noi dobbiamo agire perché la pace prevalga. Troppi di noi sono pronti ad abbracciare con gioia l’eredità di Madiba della riconciliazione razziale ma oppongono una strenua resistenza a riforme anche modeste che potrebbero porre fine alla povertà cronica e alle crescenti ineguaglianze. Ci sono troppi leader che si dichiarano solidali con la lotta di Madiba per la libertà, ma che non tollerano il dissenso dei loro stessi popoli. E ci sono troppi di noi che ancora restano in disparte, comodamente compiacenti o cinici quando dovrebbero far ascoltare la loro voce.
Non esistono facili soluzioni per i problemi con i quali siamo alle prese oggi: come promuovere l’eguaglianza e la giustizia, come affermare la libertà e i diritti umani; come porre fine ai conflitti e alle guerre settarie. Ma neppure per quel bambino di Qunu c’erano facili risposte.
Nelson Mandela ci rammenta che ogni cosa può sembrare impossibile finché non la si realizza. Il Sudafrica ci dimostra che questa è la verità. Il Sudafrica ci mostra che possiamo cambiare.
Non vedremo mai altri Nelson Mandela. Ma permettetemi di dire ai giovani africani e ai giovani di tutto il mondo che voi potete fare vostre le lotte e le conquiste della sua vita. Oltre trenta anni fa, quando ero ancora uno studente, appresi chi era Madiba e quali fossero i conflitti della sua terra. Conoscerlo scosse qualcosa dentro di me, nel profondo. Mi risvegliò e mi mise in grado di far fronte alle mie responsabilità nei confronti degli altri e di me stesso, e mi avviò lungo la strada che mi avrebbe portato dove mi trovo oggi. Se da un lato so che non riuscirò a eguagliare l’esempio di Madiba, dall’altro so che egli vuole che io voglia migliorare. Egli fa appello a ciò che di meglio c’è dentro di noi. Quando questo grande liberatore sarà sepolto per riposare in pace; quando saremo ritornati nelle nostre città e nei nostri villaggi e avremo ripreso le nostre routine quotidiane, proviamo a cercare dentro di noi, nel profondo di noi stessi, la sua grande forza, la sua grandezza d’animo. E quando la notte si farà scura, quando l’ingiustizia renderà pesante i nostri cuori, o quando i nostri piani ben delineati ci sembreranno irraggiungibili, pensiamo a Madiba, pensiamo alle parole che nelle quattro mura della sua cella gli arrecarono tanto conforto: »Non importa quanto stretto sia il passaggio, quanto piena di castighi la vita: io sono il padrone del mio destino; io sono il capitano della mia anima».
(Traduzione di Anna Bissanti)

la Repubblica 11.12.13

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Stretta di mano tra Barack e Castro Jr. ecco l’ultimo miracolo di Madiba. Il saluto allo stadio tra i due “nemici” è un segnale di disgelo, di VITTORIO ZUCCONI

CON quel suo sorrisetto un po’ ironico, gentile e diffidente. Lungo le mani dell’Uomo passa la corrente della storia e fa cadere muri che sembravano infrangibili, rende possibile quello che fino a ieri era inconcepibile e scavalca rancori, anche in una stretta di mano, come quella che proprio Madiba Nelson Mandela offrì nel maggio del 1990 a F. W. DeKlerk, all’ultimo pretoriano all’Apartheid, sotto lo sguardo estatico e sbigottito dei bianchi e dei neri.
E’ stato l’ultimo successo di Mandela. Ma ciò che lui avrebbe subito spiegato ai due uomini, a Obama e a Castro Jr, è che il gesto di pace, il segnale che da migliaia di anni offre la mano nuda alla mano nuda del nemico per mostrarla disarmata, vale soltanto come l’intenzione di chi la allunga e la stringe. Nella storia essa è servita tanto a nascondere quanto a rivelare, a ingannare quanto a confessare. Tra le mani intrecciate di Hitler e Neville Chamberlain a Monaco 1938, come fra quelle, addirittura a tre, fra Stalin, Churchill e Truman nella Potsdam del 1945, correva già il veleno delle cattive intenzioni. O delle cattive conseguenze, come la stretta di mano nel 1977 fra Jimmy Carter e uno Scià Palhavi che gi à la Casa Bianca sapeva essere in agonia politica e si preparava a scaricare.
Eppure c’è un segnale antico, e irresistibile per noi “civili”, nell’immagine di un gesto che da urne funerarie greche di secoli avanti Cristo ci manda speranze di quella pace che si vorrebbe raggiungere in vita, prima che in morte, e non si ottiene mai del tutto. E se le mani che brevemente si intrecciano appartengono a nemici fino a quel momento mortali, metaforicamente e letteralmente, ancora più intenso è il desiderio di credere alla loro sincerità. In pochi centimetri, Richard Nixon, il falco irriducibile della “caccia ai Rossi”, colmò distanze di continenti ideologici e di cimiteri di guerra in Corea, stringendo la mano del detestato Mao Zedong nel 1972, garantendo quel mezzo secolo di pace fra i due colossi che ancora, barcollando, regge. E sotto le mani di Ulysses Grant, generale vittorioso del Nord, e Robert E Lee, generale sconfitto del Sud, scorreva nel 1865, invisibile ma possente, il fiume del sangue dei 600 mila morti che la loro guerra civile aveva fatto sgorgare.
Si può soltanto sperare, allora, che la stretta chiuda un passaggio e ne apra un altro, che non sia soltanto un trucco di prestidigitazione nel quale i due illusionisti si ritrovano, dopo la cerimonia, uno con il portafoglio e l’anello dell’altro, sfilato nella manipolazione. Il lunghissimo momento di sospensione del tempo che vedemmo a Camp David, millimetro dopo millimetro di esitazione, allacciare le dita di Ytzak Rabin e di Yasser Arafat preparò il martirio del premier israeliano senza davvero produrre pace nella dignità per i palestinesi, esattamente come la stretta di mano fra Menachem Begin e Anwar Sadat sigillò la pace fra Israele ed Egitto, buona cosa, ma firm ò la condanna a morte di Sadat, pessimo esito. Eppure nulla di meglio fu da allora raggiunto, e quel poco di bene fu sigillato fra le dita di quegli uomini. O di donne, come la manina guantata che la regina Elisabetta graziosamente offrì all’irlandese Martin McGuiness, per segnare la fine della guerriglia e della repressione che
i leali soldati di Sua Maestà avevano inflitto ai ribelli dell’IRA.
C’è sempre, anche nella stretta più sincera, un retrogusto di ipocrisia, un fondo di pensieri non detti e di riserve, in quei gesti, che non guardiamo con la speranza che esprimano davvero svolte nel corso della storia. Ci possono essere effetti paradossali, come nel primo “handshake”, nella prima stretta fra un presidente americano e un leader sovietico, Kennedy e Krusciov, nella Vienna del 1961, quando Jfk pretese di accogliere l’ucraino restando sul gradino più alto, in un atteggiamento di condiscendenza che irritò molto l’uomo del Cremlino. E lo convinse che Kennedy fosse un peso leggero, un giovanotto impreparato, che non avrebbe reagito all’invio di missili a testata nucleare a Cuba.
Le strette di mano funzionano oltre la simbologia se arrivano alla conclusione, o nel processo, di un reciproco ravvedimento o almeno della reciproca accettazione.
Reagan, il crociato contro l’Impero del Male strinse la mano di Gorbaciov nella Ginevra del 1985 e da quello si capì che tutto era cambiato, e sarebbe cambiato ancor più velocemente, dopo che i due uomini avevano riconosciuto, se non le ragioni, almeno l’umanità comune di un avversario sempre descritto come una caricatura da cartoon ideologico.
E tra Cuba e gli Stati Uniti, che già avevano visto una prima stretta di mano fra Clinton e Castro Sr, Fidel, l’incontro sulla bara di Mandela avviene mentre tutto l’apparato del “bloqueo”, dell’embargo, del boicottaggio, si sta sbriciolando come le mura di una fortezza inutile e anacronistica, ormai puntellata soltanto dal morente fanatismo dei vecchi “boia chi molla” tra la Florida e l’Avana. La loro, al funerale di Mandela, è una di quelle strette di mano che improvvisamente fanno chiedere ai protagonisti: ma perché tu e io siamo ancora nemici? Ma perché abbiamo sprecato tanto tempo e tanto odio? Esattamente come avrebbe detto Mandela.

La Repubblica 11.12.13

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Gospel, vip e presidenti per l’addio a Mandela “Un gigante della Storia” di PIETRO VERONESE
E così, per la terza, l’ultima, volta, lo spirito di Nelson Mandela ha riempito il grande stadio alle porte di Soweto, ha attirato a sé come un magnete decine di migliaia di persone venute da ogni parte del mondo, riunite al richiamo del suo nome. La prima fu all’indomani della sua liberazione, quando tutti vennero a vedere che era proprio vero, Mandela era tornato, e lui proclamò: «Noi ci opponiamo al dominio dei bianchi, così come ci opponiamo al dominio dei neri». La seconda fu il suo addio alla scena pubblica, l’ultima sera dei Mondiali di calcio, luglio 2010, abbracciato da un’ovazione planetaria. Ieri infine, in questo dicembre di nebbia e di pioggia, lo FNB Stadium è risuonato del suo nome proclamato dalle gradinate e dal podio, da Barack Obama, di gran lunga l’oratore più applaudito, dal segretario generale delle Nazioni Unite, dai nipoti, da presidenti, dignitari, vescovi e cori gospel. Nelson Mandela, questo «gigante della Storia », «l’ultimo grande liberatore del XX secolo» come lo ha definito Obama, è morto, un altro capitolo, un altro Sudafrica comincia.
Si stava appena levando un’alba grigia e bagnata e già la gente cominciava ad affluire nel grande anello, occupandolo dall’alto — dove la copertura proteggeva dalla pioggia — verso il basso. Soltanto molte ore dopo si sono fatte strada le prime delegazioni, un centinaio di capi di Stato e di governo, un vero vertice mondiale, praticamente l’intera Africa salvo poche eccezioni, e poi l’America Latina dall’Argentina al Brasile al Venezuela, Cuba, l’India, la Cina e un’infinita di Paesi dell’Oriente Estremo e Medio, Afghanistan compreso, David Cameron, Hollande e con loro mezza Europa, sovrani, principi e principesse, alti prelati, gli “ex” più famosi da Kofi Annan a Clinton a Blair, e poi Bono Vox, Charlize Theron, Naomi Campbell con la mamma. Per l’Italia il presidente del Consiglio Letta («la figura di Mandela è una lezione di unità per l’Europa») e la presidente della Camera Boldrini («ha trasformato la rabbia e l’odio in qualcosa di costruttivo»).
E intanto lo stadio si andava riempiendo e colorando e risuonava di canti, balli, grida, marce, slogan. La famiglia in gramaglie formava una vasta macchia nera nella tribuna speciale che le era stata assegnata, la vedova Graça una statua di pietra, unico segno di vita il lungo abbraccio con la seconda moglie di Mandela, Winnie. Un crescendo di arrivi e di folla, culminato nell’inno nazionale, uno dei pi ù belli e solenni che il mondo abbia mai udito e che non manca mai il suo effetto.
Ma poi qualcosa è andato storto. Quando il presidente sudafricano Jacob Zuma è salito sulla tribuna d’onore, è stato accolto da una salva di fischi e di «buuuh».
Ogni volta che il suo nome veniva citato da un oratore, la cosa si è ripetuta sempre più forte, sempre più inequivocabile e imbarazzante davanti agli ospiti stranieri. Per lunghi tratti le parole degli oratori sono andate perdute in un frastuono di canti e di balli: la folla andava per conto suo. Più volte il maestro delle cerimonie, il vicepresidente dell’ANC Cyril Ramaphosa, ha richiamato lo stadio all’ordine e alla fine l’arcivescovo Tutu ha dovuto minacciare di negargli la sua benedizione per costringerlo a zittirsi («Voglio sentire cadere uno spillo!», ha gridato il vecchio ottantaduenne).
Solo Barack Obama ha riportato il visibilio, per la sua sola presenza
ancor più che per il suo discorso, pure applauditissimo: «La
sua lotta è stata la nostra lotta, il suo trionfo, il nostro trionfo… C’è voluto un uomo come Madiba per liberare non solo il prigioniero, ma anche il carceriere… Ha cambiato le leggi, ma anche i cuori». Nella classifica delle ovazioni è stato seguito dal segretario generale dell’Onu, dal presidente dello Zimbabwe Robert Mugabe inquadrato a un certo punto sul maxischermo e da Winnie Madikizela Mandela, più volte citata.
L’ultimo a parlare è stato Zuma, di nuovo accolto da fischi. Si era già alzato e avvicinato al podio ma gli organizzatori hanno fatto intervenire un coro gospel, come per prendere tempo. Poi il presidente ha pronunciato il suo discorso, neanche brutto, ma ormai lo stadio aveva cominciato a svuotarsi e sempre più larghe si facevano le macchie arancioni dei sedili liberi. Di quelli che restavano sugli spalti, molti rivolgevano al suo indirizzo il gesto eloquente che si fa da bordo campo nelle partite di calcio, per indicare all’arbitro che si vuole sostituire un giocatore, una veloce rotazione degli avambracci l’uno intorno all’altro.
Così il Sudafrica è entrato formalmente, ufficialmente, nel dopo Mandela, mettendo sotto gli occhi del mondo le sue e divisioni interne e l’impopolarità del suo presidente. Prima del giorno in cui Madiba se n’è andato, la notizia che da settimane e mesi campeggiava sulle pagine dei giornali (e presto ci ritornerà) è lo “Nkand-lagate”, lo scandalo della faraonica ristrutturazione della residenza privata di Zuma nel suo villaggio, Nkandla, a spese dell’erario. Una commissione d’inchiesta è al lavoro e il suo rapporto è atteso fra non molto, certo prima delle elezioni in programma tra sei mesi. Quel giorno Zuma sarà solo, l’ombra protettiva di Mandela si sarà dileguata da tempo.

La Repubblica 11.12.13