attualità, politica italiana

“Due Paesi troppo lontani”, di Massimo Giannini

In questo clima velenoso e confuso da piccola Weimer tricolore, vediamo agire due Italie distinte e destinate fatalmente a confliggere. In Parlamento, il luogo in cui la democrazia rappresentativa celebra i suoi riti e il popolo sovrano elegge i suoi rappresentati, il premier delle Intese Ristrette Enrico Letta ottiene la sua seconda fiducia e scommette su un «nuovo inizio» che dovrebbe portarlo senza traumi al traguardo del 2015.
Nelle piazze, il luogo in cui si esplica la sociologia e la psicologia delle masse, un popolo smarrito senza sovranità e senza rappresentanza urla la sua rabbia cieca e sorda e azzarda l’assedio all’odiato Palazzo d’Inverno della politica. Queste due Italie reagiscono in modi diversi alla stessa Grande Crisi che le ha travolte negli ultimi sei anni. La prima si difende, secondo le regole codificate della Costituzione. La seconda sfascia, secondo le logiche disperate del forcone. Il risultato è un conflitto drammatico, e apparentemente senza sbocchi. Non c’è dialogo possibile, tra questi due Paesi lontani. Il Parlamento, delegittimato, non lo riesce a creare. Le piazze, esasperate, non lo vogliono cercare. L’unico “raccordo”, improprio e irresponsabile, lo pratica il Movimento 5 Stelle: i grillini “abitano” sia le Camere sia le piazze, e tra le une e le altre non fanno differenza, affrontandole entrambe con lo stesso, truce opportunismo di una forza sempre e comunque “extra-parlamentare”.
Quando le rivolte si fanno violente, quando mettono a repentaglio la sicurezza dei cittadini e l’efficienza dei servizi, e quando i cattivi maestri alla Grillo le cavalcano con un cinismo che rasenta l’eversione, non può esserci dubbio su quale sia la parte giusta della “barricata”. La protesta civile è un diritto irrinunciabile, ma lo Stato di diritto è un presidio inviolabile. Dunque è giusto impedire che i mille focolai che infiammano le città italiane in questi giorni si trasformino in guerriglia urbana, che i valichi di frontiera siano bloccati, che gli snodi ferroviari o stradali siano paralizzati. E ha fatto bene il presidente del Consiglio a ribadire il primato della legge, sfidando a viso aperto deputati e senatori pentastellati, nell’intervento con il quale ha ottenuto il nuovo via libera al suo governo da Montecitorio e da Palazzo Madama.
Nella moderna, desolata jacquerie che da giorni agita le piazze c’è molto di più dei semplici forconi nati in Sicilia nel 2012. Dai “padroncini” protestati del Nord-Est ai commercianti semi-falliti del Nord-Ovest, dal Movimento Autonomo Trasportatori ai Cobas del latte, dagli ambulanti di Porta Palazzo a Torino ai tassisti di Roma, dagli autotrasportatori di Genova agli agricoltori dell’Agro Pontino e del Veneto. Una sommossa trasversale, che ha i tratti forti del poujadismo francese del 1953, di cui per ironia della storia ricorrono proprio ora i 60 anni. Come il movimento transalpino fondato da Pierre Poujade a Saint Cérè, anche quello italiano nato spontaneamente in questi giorni mette insieme la collera di un ceto medio ormai polverizzato e inafferrabile nel quale, insieme ai dipendenti, convivono i lavoratori autonomi che la recessione ha fatto scivolare all’ultimo gradino della scala sociale. Negozianti e artigiani, contadini e imprenditori.
Una buona metà di quella che un tempo avremmo chiamato la “borghesia”, la più piccola e la più povera, che dopo sei anni di crisi feroce indotta dall’austerità e dalla globalizzazione vive ormai ai margini, senza tetto né legge, senza speranza e senza rappresentanza. Un pezzo consistente di società che non è “classe” (perché non ha mai avuto alcuna coscienza del suo ruolo), e non è neanche “categoria” (perché non si riconosce più in alcuna forma associativa). Una scheggia di Paese, come sostiene Aldo Bonomi, che è il prodotto di una rottura (quella del capitalismo molecolare) e di una frattura (quella del modello post-fordista). Una scheggia di Paese che inaridisce e impoverisce, in aree produttive ormai quasi desertificate: non a caso l’epicentro della rivolta è in zone come il Piemonte (dove un tempo prosperavano la Fiat e il suo indotto) e la Liguria (dove un tempo dominavano la siderurgia e la sua filiera).
Con un modello economico e industriale in via di estinzione, sta sparendo anche la borghesia minuta che gli era cresciuta intorno. E così questa massa critica ha fatto “condensa”, ed è diventata una “moltitudine rancorosa”. Unita solo dall’odio contro lo Stato prevaricatore, il Parlamento corrotto, il fisco assassino. Votata solo al populismo, al corporativismo, alla demagogia. Per questo, come nel poujadismo classico, questo frammento sociale composito è così vasto, tende ad allargarsi, ed è insensibile ad ogni “mediazione”. Tutti i partiti vanno distrutti, tutti i politici vanno cacciati. Una deriva che, proprio come in Francia sessant’anni fa, da un lato sollecita pericolosi processi emulativi nella sinistra radicale (dai centri sociali ai drop-out metropolitani), ma dall’altro porta naturalmente a sbocchi di destra estremista. La conferma è che a guidare le manifestazioni più dure, a Roma come a Milano, sono i militanti di Casapound e di Forza Nuova.
Per questo, se Letta ha ragione a ripetere che queste forme di ribellione esagitata «non rappresentano il Paese», non può incappare nel torto di sottovalutare la portata di questa Vandea che scuote la Penisola, da Palermo ad Aosta. Oggi più che mai, leggere il fenomeno solo con gli occhi dell’ordine pubblico sarebbe un tragico errore. Al di là delle degenerazioni violente, da perseguire senza se e senza ma, il disagio delle piazze ha radici che affondano in un terreno socio-economico intossicato molto prima della spregiudicata semina grillista. Quel disagio è reale, ed esige risposte dall’unico soggetto che le può e le deve dare: la politica. Qui sta la sfida di Letta, che incassata la nuova fiducia deve fare davvero ciò che promette, fugando ogni dubbio sulla sua volontà di galleggiamento. E qui sta anche la sfida di Renzi, che assunta la guida del Pd deve spiegare davvero cos’è «il governo secondo Matteo», fugando ogni dubbio sulla sua capacità di cambiamento.
Dopo cinque anni di sconquassi, in Francia fu la nascita della Quinta Repubblica nel ’58 a cancellare il poujadismo di Saint Cérè. Quanto dobbiamo aspettare perché in Italia la nascita della Terza Repubblica spazzi via il populismo di Berlusconi e quello dei forconi?

La Repubblica 12.12.13