attualità, politica italiana

“I ribelli senza leader”, di Paolo Griseri

Senza leader e senza richieste. Il nuovo movimento dei forconi è forte perché finora nessuno è stato in grado di definirlo. Sfugge, scappa dai cappelli della politica e dalle definizioni dei mass media. Molto più bravo a dissimularsi della Pantera studentesca del’90. È certamente un contenitore di rabbia, «l’effetto del colpo di rinculo del ceto medio», come spiega il presidente del Censis, Giuseppe De Rita. «La polverizzazione del Novecento», sintetizza il sociologo Marco Revelli. In ogni caso, la presa d’atto che d’ora in poi dormire sonni tranquilli sarà un lusso riservato all’élite.
Se si dovesse trovare una storia simbolo per definire quanto sta accadendo nelle città italiane, quella di Alessio M. avrebbe buone possibilità di diventarlo. Lunedì mattina Alessio ha fatto la sua parte in quella specie di assalto al Palazzo d’Inverno che è stato lo scontro di fronte alla sede della Regione Piemonte a Torino. Era nel gruppo che ha fatto rifornimento di mattoni in un vicino cantiere prima di scagliarli con forza contro gli agenti protetti dai caschi. E’ stato arrestato. Ieri ha spiegato al pubblico ministero: «Sono un ragazzo in cerca di lavoro e per questo sono sceso in piazza. Mi sono lasciato trascinare dal clima». Alessio ha 19 anni e vive ad Avigliana, all’imbocco della val di Susa. Aveva un motivo quasi scontato per spiegare la sua presenza in piazza: poteva dire che faceva parte del movimento contro la Tav. Non lo ha fatto. Anzi, ha fatto mettere a verbale: «Sottolineo di non aver mai preso parte a manifestazioni No Tav».
Chi agita il clima di cui ha parlato Alessio nel suo interrogatorio? È evidente che la protesta ha perso presto le sue motivazioni originarie. Nata dallo sciopero dell’autotrasporto, poi revocato dal 95 per cento dei camionisti Italiani, è diventata nelle prime ore di lunedì una rivolta di ambulanti dei mercati e di commercianti. Un periodo assurdo per far scioperare chi ha un negozio: nell’unico mese dell’anno in cui la gente ha qualche soldo. «Ma anche — osserva Marco Revelli — nella settimana a cavallo tra il pagamento della tassa dei rifiuti e della rata dell’Imu». La rabbia prevale addirittura sul calcolo di convenienza in una categoria che non è nota per gettare il cuore oltre l’ostacolo della cassa. La lotta contro le tasse ha finito per allargare il fronte della rivolta: «Ci sventolavano sotto il naso le cartelle di Equitalia e le bollette», raccontano gli agenti che hanno dovuto fronteggiare i cortei nelle città italiane. E non parlavano solo di ambulanti. Ieri sera, a bloccare
il ponte di Ventimiglia e dunque la frontiera tra Italia e Francia, c’erano centinaia di persone che non hanno un esercizio commerciale ma chiedevano ugualmente di far scendere le tasse.
Il fisco come simbolo dell’impoverimento generale, un caso classico in cui si scambia l’effetto con la causa: dare l’assalto ai forni del pane pensando di eliminare la carestia. «Quella a cui stiamo assistendo — spiega De Rita — è la rivolta delle classi che erano riuscite a entrare nel ceto medio e ora tornano a cadere in basso». Per un trentennio, ricostruisce il presidente del Censis, «il ceto medio ha continuato ad accogliere una parte crescente della società italiana fino a rappresentarne oltre l’80 per cento. Dal 2000 in poi questo grande lago del ceto medio ha cominciato a svuotarsi». Il processo di impoverimento ha subito una forte accelerazione con la crisi del 2008. È questa accelerazione che ha portato in piazza l’esercito dei precari, degli studenti senza immediati sbocchi occupazionali e della marea di cassintegrati che da due-tre anni, vivono con 7-800 euro al mese.
Martedì mattina, comizio in piazza Castello a Torino. Una signora non più giovane prende il microfono: «Quando io non ci sarò più, di che cosa vivranno i miei nipoti?». Fuori dal megafono spiega: «Mia figlia e mio genero mandano avanti la famiglia anche perché io prendo la pensione. Lui è cassintegrato, lei è disoccupata, come faranno domani?». «Queste situazioni — osserva Revelli — sono il frutto del radicalizzarsi della crisi sociale ma anche dal precipitare della crisi della politica che non si accorge nemmeno dell’esistenza di un altro mondo, molto più reale di quello dei palazzi del potere: uno scollamento drammatico ».
Una percezione che hanno avuto invece i movimenti antisistema. La rivolta del 9 dicembre è stata cavalcata da subito dalle formazioni dell’estrema destra (Fiamma Tricolore e Casa Pound, i primi ieri in piazza a Milano) tradizionalmente più vicine a commercianti, forconi siciliani e ambulanti. Ma è significativo l’atteggiamento assunto dai centri sociali torinesi di area autonoma. Sul blog “Infoaut” si possono leggere in successione gli anatemi contro «la protesta fascista del 9 dicembre», le prime manifestazioni di interesse del martedì con la cronaca dei cortei dalla radio del movimento, e, infine, la decisione di scendere in piazza, ieri, guidando cortei di studenti.
Del variegato mondo dei cortei di questi giorni fanno infine parte gruppi di ultras che a Torino e Milano hanno retto la maggior parte degli scontri con gli agenti di polizia e carabinieri. Sono stati chiamati a dare una mano come truppe di sfondamento ed esperti negli scontri, secondo una tecnica già collaudata da altri movimenti italiani.
La politica riuscirà a venire a capo di un mosaico tanto contraddittorio e sfuggente? «La politica — conclude Revelli — ha fatto di tutto in questi anni per non vedere il gigantesco processo di polverizzazione sociale e di impoverimento che si stava producendo. E ancora oggi la sinistra commette l’errore di etichettare tutto questo come frutto di una violenza squadrista. Certo, il rancore e la rabbia dei poveri sono brutti da vedere e facili da strumentalizzare. Ma non possiamo cavarcela con le manifestazioni antifasciste».

L’Unità 13.12.13