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“La trappola del contagio”, di Gad Lerner

A Roma gli occupanti della Sapienza mostravano un cartello: “E oggi non ve lo togliete il casco?”. Dopo le botte prese, immagino gli prema distinguersi dai forconi: agli studenti la polizia mica ha concesso benevolenza. La differenza resta, d’accordo, ma quando il malessere sociale accomuna chi precipita nella scala sociale, e l’aria di rivolta serpeggia un po’ dappertutto, allora è il contagio a prevalere. Il pericolo non può che aumentare, con cadenza geometrica. Non si va più tanto per il sottile, fra destra e sinistra. Ma l’effetto contagio che suggestiona chi si attende una spallata antisistema è anche l’ambiguo contenitore di virus pericolosi, come dimostra la delirante uscita sulle colpe dei “banchieri ebrei” del leader dei Forconi piemontesi Andrea Zunino.
Non ho trovato fra i manifestanti nessuno che ne rivendicasse il complottismo antisemita, ma ben sappiamo che la ricerca del capro espiatorio, quando la miseria materiale s’intreccia con l’ignoranza e il pregiudizio, può avvelenare il senso comune di tanti disperati in buona fede. Radicalizzare il conflitto, da destra come da sinistra, comporta anche il rischio di resuscitare fantasmi e scatenare la caccia ai “nemici del popolo”. A chi si ritrova nelle università come nelle piazze, oggi è dovuto un surplus di precauzione.
Gli universitari romani ora chiedono le dimissioni del rettore Luigi Frati, accusato di clientelismo, ma l’episodio scatenante è stato l’invito da lui rivolto a Napolitano e Letta per un convegno nell’ateneo. Il capo dello Stato e il premier vengono additati come massimi responsabili della sofferenza generalizzata. Sono, per loro, il vertice di una classe dirigente da mandare tutta a casa, senza distinzioni. Non è forse la parola d’ordine contagiosa lanciata dai blocchi stradali di Torino, Genova, Milano?
Certo, a Scienze politiche sotto occupazione non si sente cantare “Fratelli d’Italia” come in piazzale Loreto a Milano, dove scandiscono la rima «Noi siamo il popolo, voi non siete un cazzo, uscite dal Palazzo ». Alla Sapienza usano un altro linguaggio, più politico, «Fuori i signori dell’austerity dall’università »; mentre in Loreto gridano «siamo apolitici» e sventolano il tricolore.
Eppure la diffidenza che nei primi giorni della rivolta teneva separati i centri sociali e la Fiom dal magma senza rappresentanza degli ambulanti e degli ultrà da stadio, ormai viene ritenuta eccessivamente schizzinosa anche da vecchi militanti della sinistra come Guido Viale e Marco Revelli. È stato proprio Viale a ricordare che il lungo ciclo di lotte della nuova classe operaia a Torino fu inaugurato nel 1962 da una sassaiola contro la sede Uil di piazza Statuto, che ebbe per protagonisti dei giovanissimi balordi mescolati ai militanti di base del partito comunista.
La citazione storica, mezzo secolo dopo, deve fare i conti con la demografia: ci sono, sì, i giovanissimi disoccupati, fra gli animatori dei blocchi stradali. Ma il coordinamento sembra piuttosto in mano a maturi esponenti di un lavoro autonomo impoverito, barbe lunghe
e pancia grossa, qualche orecchino e codino trattenuto con l’elastico, decisamente brizzolati. Sono questi signori con l’aria di saperla lunga che ripetono come un mantra: «Noi siamo l’Italia, noi siamo il popolo, a noi la politica non ci interessa, ormai anche Grillo ha i suoi deputati che prendono lo stipendio».
Così accade che proprio piazzale Loreto, col suo richiamo evocativo ai partigiani trucidati e al regime appeso a testa in giù, diviene il laboratorio di questo guardingo annusarsi fra destra e sinistra.
Tentate dalla spallata comune. Me lo dice chiaro Stefano, titolare di un’azienda di pulizie e ristrutturazioni, che qui viene riconosciuto come testa pensante: «Io sto pregando perché estrema destra e estrema sinistra si incontrino, metterle insieme è il nostro sogno. L’altra sera ci è toccato proteggere i ragazzi di Forza Nuova che ci avevano chiesto il permesso di venire con un loro striscione». Accanto a lui, per fare sì con la testa, il giovane Nicola si toglie la maschera di Anonymus e rassicura: «Se qui ci stiamo anche noi, gli antagonisti, è perché il pericolo di cadere preda dei fascisti non esiste. Dobbiamo credere nell’unità popolare».
Parte un coro di invocazioni da questa sorta di galleria di ritratti della marginalità sociale: «Ho 41 anni e da quattro non trovo lavoro. Sopravvivo perché mia madre ha venduto la casa per cui avevamo già pagato dieci anni di mutuo. Ti sembra giusto? È un paese marcio! ». «Io sono di destra ma l’ideologia politica non conta. Faccio assistenza tecnica per macchine da caffè, ma ora i bar li comprano i cinesi, sto facendo le carte per andarmene all’estero». «Siamo mamme arrabbiate, scrivilo!». Cantano: «La gente come noi non molla mai…».
Gli chiedo cosa vogliono, dopo quattro giorni che, a Rho come a piazzale Loreto, fermano le automobili per pochi minuti e aspettano via Facebook rinforzi che non arrivano mai. «Teniamo duro perché sentiamo che la gente è con noi, ci danno tutti ragione e poi non abbiamo nulla da perdere». Forse anche loro percepiscono che il contagio della rivolta si profila come un’eventualità tutt’altro che remota. Mi danno un volantino primitivo, di poche frasi: «Se non te ne sei accorto questa classe politica criminale ti sta pisciando addosso e ti racconta che è solo pioggia!».
Davvero pensate che con 2085 miliardi di debito pubblico il problema siano solo i costi della politica? «Lo sappiamo che in proporzione i soldi dei politici sono spiccioli, ma quella è la diga da rompere ». Credete anche voi alla teoria dei banchieri ebrei? «Macché, sono stupidaggini». Facebook li esalta con le fotografie di nuovi blocchi, altra gente in piazza. Sono sicuri di vincere. Confidano che nei prossimi giorni arriveranno gli indifferenti di ieri. Puntano sul contagio.

La Repubblica 14.12.13