attualità, politica italiana

“C’era una volta l’apparato”, di Filippo Ceccarelli

Tra gazebi e forconi si consuma la fine ultima degli apparati di partito. Erano ormai poco meno di una parvenza, 3-400 persone, ma il decreto Letta contro il finanziamento pubblico gli toglie pure la speranza. Oltre all’occupazione. E degradato al rango di mero problema economico, secondo l’ameno triduo licenziamenti-cassa integrazione-solidarietà, come altre professioni che richiamavano una comunità di destino, ciò che resta del funzionariato nemmeno trova un degno canto funebre che ne ricordi l’antica gloria e l’anonimo, indispensabile vigore.
In realtà, rispetto al prevedibile, ma proditorio colpo di grazia, ben gli si adatterebbero quei versi di Kavafis che in un paio di libri uno dei maggiori studiosi di politica, Mauro Calise, ha evocato a proposito dei partiti della Prima Repubblica: “Onore a quanti in vita/ si ergono a difesa delle Termopili/ (…) E un onore più grande gli è dovuto/ se prevedono (e molti lo prevedono)/ che spunterà da ultimo un Efialte/ e che i Medi finiranno per passare”.
Niente poesia, ora, per impiegati, segretarie, autisti, addetti e commessi di partito. Il tempo delle tensostrutture smontabili e delle rivolte caotiche offre loro semmai, a portata di mouse e di schermo, una specie di malinconica caricatura, una pagina di Facebook, oltre 23 mila “mi piace”,
che all’insegna del vintage e dell’ironia celebra, riadattandoli o rovesciandoli nel presente, i grigi stilemi, le automatiche fissazioni e i burocratici appelli dell’Apparato comunista: «La gente ci chiede più stanze fumose, meno trasparenza»; e si postano foto di suppellettili bolsceviche, pure reclamizzando Il libretto grigio che l’Apparato ha di recente pubblicato con gli Editori Internazionali Riuniti.
E il gioco un po’ fa ridere, un po’ mette anche tristezza, ma certo rende più difficile adesso far capire, in un’Italia irriconoscibile, qual è stato il vero ruolo svolto per magri stipendi da questi oscuri lavoratori anche altrove votati alla causa. Della democrazia, si sarebbe detto un tempo, ma oggi?
In un libro molto bello, Botteghe Oscure addio (Mondadori, 1996) Miriam Mafai finisce spesso per descrivere l’apparato come un corpo vivo. Scrive che si trattava dello “scheletro” e del “sistema nervoso” del Pci; poi del “cuore” e del “cervello”; quindi, sempre a proposito di quella macchina da cui dipendevano la trasmissione della “giusta linea” e il suo controllo,
arriva a concludere che «tutto in quel palazzone scorreva con la stessa placida regolarità con la quale il sangue circola nelle vene».
Alle Botteghe Oscure c’erano la mensa e le sirene per dare l’allarme, la Vigilanza era al pianterreno, come del resto l’ambulatorio del dottor Pedicino, mentre nel grande salone con i banchi di formica del quarto, oltre alle riunioni del Comitato centrale, si organizzavano le festicciole per Natale o i compleanni dei dirigenti. L’Ufficio Quadri fungeva da Confessionale tipo Grande Fratello. Per qualsiasi necessità, i funzionari smistavano ai compagni sarti, elettricisti, donne di servizio. Fino allo scioglimento del Pci (1989) c’era un addetto alle onoranze pubbliche e ai cimiteri (passato a Rifondazione).
Nei primi anni 50 Fanfani provò a copiare quel modello per competere meglio con i comunisti. Fece costruire il grande palazzone dell’Eur, lo riempì di personale e nelle fondamenta insediò un frammento della roccia presso cui San Francesco aveva ricevuto le stimmate. Contro l’apparatchik del Pci volle anche creare la figura professionale di “Addetto ZD”, che stava per “Zona Depressa”, anche dal punto di vista elettorale. Nel 1975, durante un drammatico, ma interminabile Consiglio nazionale, gli autisti democristiani si ribellarono e cominciarono a suonare il clacson per protesta.
Nel Psi fu sempre tutto più lasco. A via del Corso segretarie e funzionari, in seguito come i loro colleghi dei vari partiti riconosciuti e aiutati dalla “legge Mosca” (da Giovanni, che fu il vice di De Martino), vivevano in cellette dislocate nel palazzo di travertino a seconda delle stratificazioni etniche e correntizie dei vari leader. Dapprima detestarono Craxi, ampiamente ricambiati; in seguito ne riconobbero l’autorità; infine, dopo il suo disastro, persero anche il lavoro.
E tuttavia, insieme con la Prima Repubblica, per ogni partito venne meno anche quel ruolo, quell’ordine, quella specie di prolungamento della militanza. Arrivarono comunque, come i Medi di Kavafis, gli staff, i consulenti, i pubblicitari, i guru della comunicazione, e la demoscopia, il casting, la ripresa di un potere, in definitiva, che tornava ad essere al tempo stesso carismatico e patrimoniale.
Troppo facile, ma forse ancora troppo presto per raccontare lo smantellamento e la decomposizione degli apparati, infine ridotti a minimi simulacri di loro stessi. Così scomodi, per giunta, da potersi sacrificare ai nuovi idoli, tra gazebi e forconi, rottamandi e buffoni.

La Repubblica 15.12.13