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“La nostra vergogna”, di Adriano Prosperi

Il telefonino di Khalid ha catturato e messo in circolazione la scena di quello che accade da giorni abitualmente nel centro di accoglienza di Lampedusa. L’abbiamo visto tutti, non abbiamo scuse. Abbiamo visto come ogni giorno decine di uomini nudi vengano sottoposti al getto d’acqua di una pompa a motore, all’aperto, sotto il cielo dell’isola. Si tratta, dicono, di una pratica necessaria per disinfettare quei corpi.

Per combattere in particolare il pericolo di un’epidemia di scabbia.
Giusto disinfettare, curare, garantire la salute — la nostra, perché è per questo che lo si fa. Del resto qualcuno ricorda ancora, in questo paese nostro che fu un tempo non lontano quello di un’emigrazione italiana di proporzioni bibliche, che cosa accadeva alla visita d’ingresso negli Stati Uniti, quando a Ellis Island i nostri antenati dovevano sottoporsi a rozzi, elementari esami fisici destinati a scoprire le eventuali malattie di cui erano portatori. Ma non venivano fatti oggetto di questa pratica brutale del denudarsi in pubblico per sottoporsi a un trattamento che disumanizza, degrada, porta automaticamente a una discesa dal livello della comune umanità a quello di cosa. Perché una cosa è chiara: non c’è nessuna ragione perché la disinfezione debba essere fatta così, collettivamente e all’aperto.
Denudare pubblicamente un essere umano vuol dire togliergli quella difesa elementare, quel segnale di umanità che consiste nel coprirsi, nel proteggere la propria nudità. Gli esseri umani si distinguono dalle bestie perché si coprono istintivamente. Dice la Bibbia che Adamo
ed Eva, quando lasciarono l’Eden, scoprirono la loro umanità col senso di vergogna per il corpo nudo. Dunque la domanda che viene spontanea è sempre quella formulata da Primo Levi: diteci, voi che siete al coperto nelle vostre tiepide case, se sono uomini questi esseri nudi nel dicembre che sa ormai di Natale, esposti al getto d’acqua che la pompa scarica sui loro corpi. E poiché la risposta è sì, né può essere diversa, bisogna passare all’altra domanda: dobbiamo chiederci chi siamo noi, responsabili in solido di questa riduzione a bestiame dell’umanità che sbarca a Lampedusa a rischio della vita e si aspetta di trovare da noi, se non le immagini dorate trasmesse dalla televisione, almeno non un simile livello di disumanità. Giusi Nicolini, la bravissima sindaca di Lampedusa, ha risposto per tutti noi: queste immagini ricordano i campi di concentramento. Nei lager non c’erano i telefonini. Oggi questo strumento ci toglie l’ultimo alibi: la difesa del non vedere, del non sapere.
Ma se quello odierno è uno scandalo, si deve riconoscere che gli scandali sono necessari perché senza di essi non riusciamo ormai più ad aprire gli occhi. E speriamo che anche questa volta tutto non si riduca a un’emozione epidermica e che domani non ci si trovi di nuovo davanti all’impasto abituale di provocazioni leghiste e di politiche fatte di parole benevole quanto vane, di intenzioni mai seguite da fatti. Finora nemmeno l’escalation di quegli annegamenti di massa che hanno fatto del Mare di Sicilia un immenso cimitero marino è bastata a cambiare le cose. L’episodio di Lampedusa, teatro all’aperto di ciò che l’Italia — ma anche, dietro di lei, l’Europa tutta — sa offrire a chi tenta di varcarne le soglie deve essere per una volta la scossa finale che porti una buona volta a raddrizzare il legno storto dei diritti così come vengono intesi e praticati da noi. Dobbiamo prendere atto che questo è solo l’ennesimo episodio di un sistema che ha preso forma di legge, si è radicato nel costume e nelle istituzioni: col risultato che l’umanità difettiva dell’immigrato rischia di apparirci di fatto come quella di un animale pericoloso, portatore di malattie: e questo perché sempre più decisamente si sono create da noi le premesse di una discriminazione sul terreno dei diritti primari che ha fatto scivolare sempre più l’Italia sulla china di un razzismo tanto più reale quanto meno confessato. È tempo perché le chiacchiere buoniste, l’esibizione delle buone intenzioni, i rimedi della carità cedano il posto a misure di legge che riconoscendo dignità e diritti agli immigrati restituiscano anche a tutti noi la possibilità di non doverci ogni giorno vergognare.
Il dossier dei diritti civili deve essere riaperto subito. Non si può più rinviare la riforma della Bossi-Fini, perché mantenendola continueremmo a tenere in vita un sistema di disparità della popolazione della penisola italiana nel campo dei diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino che ha fatto regredire l’intero paese e ne ha alterato perfino il linguaggio: si pensi al significato che ha assunto oggi la parola “accoglienza” in un paese come il nostro che, con tutti i suoi difetti, era noto un tempo almeno per questa speciale virtù dei suoi abitanti.

La Repubblica 18.12.13