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Ritorno a Prato tra gli schiavi “Questo non è Made in Italy”, di Adriano Sofri

Manuele Marigolli ha 57 anni, operaio tessile dai 16 ai 30, poi sindacalista, segretario della Camera del Lavoro di Prato, è oggi alla Cgil Toscana. «Due anni fa si rivolse a noi una lavoratrice cinese e fece causa: vinse, ma tornò in patria. Non avrebbe più trovato lavoro, e temeva per la propria incolumità «Abbiamo sbagliato, pensando che col tempo si sarebbero integrati. Pensavamo: quando uno è così sfruttato, prima o poi si ribella. Il clandestino è uno che vuole mettersi alle spalle una storia disperata, non ha un’andata e un ritorno. Il cinese no, entra col visto turistico, diventa clandestino quando scade. Non la vive come una persecuzione, ed è così debole che non può rivendicare niente. Anche quando hanno formalmente un lavoro subordinato, è un vassallaggio. Il castellano col servo della gleba: gli dai da mangiare, da dormire, gli fai fare la guerra, e gli scali tutto: cibo, loculo, Inps, Inail, Irap, tasse».
Manuele Marigolli ha 57 anni, operaio tessile dai 16 ai 30, poi sindacalista, segretario della Camera del Lavoro di Prato, è oggi alla Cgil toscana.
«Due anni fa si rivolse a noi una lavoratrice cinese e fece causa: vinse, ma tornò in patria. Non avrebbe più trovato lavoro, e temeva per la propria incolumità. Dovremmo riservare a queste scelte la tutela che si dà ai collaboratori di giustizia. I neonati cinesi a Prato hanno superato gli italiani. Però i cinesi li mandano a scuola, i bambini. E non si addormentano più sui banchi per aver lavorato di notte come Coretti nel libro Cuore.
Quella dei cinesi è un’epopea silenziosa. Arrivano a San Donnino e Campi a fare pelletterie, anche per le griffes. (C’è differenza fra griffes, marchi e semplici nomi). Si spostano su Prato e prendono la parte finale della maglieria, la più povera. Soppiantano gli italiani nel lavoro a domicilio, il “taglia e cuci” dei pezzi di lana per i maglioni. Era avvenuto là il decentramento degli anni ’60 e ’70, il tessuto greggio andava nelle case e le donne smollettavano i nodi, ripassavano un filo, le tavole da pranzo avevano i mattoni sotto per inclinarle di 30 gradi, e sotto la pezza giocavano i bambini. Da bambino mi chiedevo perché la gente andasse a piedi per Prato con la bicicletta da donna caricata da un grosso rotolo di pezza. Alla fine degli anni ’70 c’erano 70mila addetti al tessile, un dipendente del Comune guadagnava sì e no la metà. In 4 sabati, lavorando la notte in un’altra fabbrica, nel 1973, a 3.000 lire l’ora, mi comprai il motorino. La crisi forte arrivò a metà anni ’80, e la città della lana sentì la mutazione della domanda, le giacche a vento al posto dei cappotti, e passò ad altre fibre. È lì che si liberano gli spazi, capannoni artigiani, lavorazioni a monte, tessiture, filature. E questi cinesi cominciano come formichine a risalire la filiera, dalla maglieria fino al capo finito, e poi alle bancarelle, ai negozi. La lunga marcia si salda con l’interesse dei locali: pagano affitti esosi per la fatiscenza dei capannoni, e la città che ha smesso di produrre, piccoli artigiani, magari compagni della Casa del Popolo, gli affittano 10 telai… Ricordati che alle 4.000 confezioni di oggi corrispondono 4.000 affittuari, una rendita ingente (e largamente al nero). E consumano, mesticherie rifioriscono per tirar su i soppalchi negli stanzoni. Tutti hanno fatto finta di non vedere. Nei cinesi che ci dormivano vedevamo una replica dei mugellani di don Milani, che facevano lo straordinario, perdevano la corriera e restavano a dormire sulle pezze.
Cos’abbiamo fatto? Denunciato, ti dò le relazioni. Mai abbiamo avuto un rapporto fiduciario coi cinesi. Abbiamo fatto volantini, tatzebao in cinese. Forse ora cambia. Siamo in un tempo che somiglia al mutuo soccorso delle nostre origini.
Arriva la crisi del tessile, dal 2001: dietro c’è l’avvento della produzione cinese, ma della Cina. C’era una domanda alta di immobili, gli imprenditori chiudono e lucrano. Noi volevamo favorire chi si associasse per fare capannoni più ampi, ma li davano ai cinesi. L’illegalità fa lievitare i prezzi, ma loro hanno disponibilità enormi di liquido. L’illegalità è reciproca: gli abusi dei capannoni riguardano i proprietari. Senza la corresponsabilità dell’affittuario non si viene a capo della separazione fra luogo di lavoro e luogo in cui si mangia dorme e vive. Quanto agli sfruttatori cinesi, bisogna colpire gli interessi: l’integrazione coi discorsi non si fa. L’interesse primo è della Cina: e se non si interviene sulle rimesse, non negoziano.
Arrivano le pezze scadenti, sdoganate a Napoli. Hanno comprato le tintorie perché hanno acqua e scarichi, e invece hanno riconvertito a tintoria e stamperia aziende a umido. Bisogna seguire il viaggio della pezza fino alla notte fonda in cui vengono i camion a caricare. L’assessore-poliziotto va dove cuciono e dormono, ma non è là il nevralgico della produzione. La confezione chiusa passa al prossimo. Se verifichi le bolle dei camion, la composizione chimica delle stoffe, colpisci l’equivalente di 200 aziende di prestanome. E mentre difendi la legalità devi premiare chi denuncia gli aguzzini: anche in forme inedite, perché i cinesi sono inediti. Li vedo ancora come un’occasione, un nostro figlio che vada a scuola con un ragazzo cinese è un’opportunità per ambedue. Io non ho avuto un amico cinese nella vita, e sono triste. Qualche giorno fa si sono persi tre cinesi in Calvana, il monte dei pratesi. Che abbiano avuto voglia di salirci fa sentire fino a che punto possano aver voglia di ambientarsi.
La tracciabilità che abbiamo concordato con Gucci, sull’intera filiera, non si può applicare a volumi enormi come a Prato. Però le fasi di lavorazione sono accertabili: 1) dove si è filato; 2) tessuto e 3) confezionato. E l’etichettatura deve comprendere la salubrità, le tinture nocive: le informazioni che dai sugli alimenti. Chi acquista sceglierà sul rapporto prezzo-qualità. Quando ci si copre non più per il bisogno ma per il desiderio, c’è qualcosa di emotivo che si comunica col prodotto –brand, taglio, design- ma dev’esserci anche la garanzia. E non si può fare senza cambiare la normativa del Made in Italy. Nel 1995 feci fare, da segretario dei tessili, uno studio sulle città italiane nel mondo. Le più conosciute erano Palermo (Napoli inclusa) per la mafia, e Firenze, la culla della bellezza. Proposi il marchio toscano sui nostri manufatti. La Confindustria toscana era contraria, perché li obbligava alla trasparenza. La stessa miopia dei pratesi che affittavano. Se nella 5th Avenue vedi una cosa italiana a 1.000 dollari e pensi che l’hanno fatta i cinesi bruciati a Prato… Bisogna ristabilire una barriera fra l’illegalità e la bravura e il gusto: il lavoratore ci mette del suo, nel dettaglio, tante sfumature di grigio, davvero, modi di cucire. Per la “nobilitazione” del tessuto, cardatura, cimatura, non c’è posto al mondo come Prato. Qualsiasi balla greggia te la fanno splendere. Ti presento Marino Gramigni, ha 76 anni, il più grande esperto di rifinitura, e prima suo padre. Il pettinato lo sanno lavorare tutti, ma nel cardato si allineano fibre corte, perse nelle filature a pettine e recuperate come materia prima. I cinesi che vogliono possono davvero continuare la filiera. Il Made in Italy, così com’è, ce lo appiccicano su, e non è illegale. Riempiono l’Europa dell’est di un prodotto che si vanta italiano. Il venerdì a Prato si muovono migliaia di tir. Dev’esserci una clausola sociale: quando lo acquisti devi sapere che c’è lo sfruttamento del lavoro, ma non lo schiavismo».

La Repubblica 20.12.13