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“Microimprese. Una grande spia della crisi italiana “, di Carlo Buttaroni

In Italia, le microimprese, cioè quelle con meno di 10 dipendenti, rappresentano il 95,1% delle imprese attive. Se si considerano anche quelle fino a 15 dipendenti, la quota sale al 97,4%. Una galassia d’imprese con, mediamente, 2 ad- detti e che rappresenta il 60% del mercato del lavoro italiano e la quasi totalità del tessuto imprenditoriale.

La retribuzione lorda di un dipendente di una microimpresa è meno di 18 mila euro, mentre quello di una grande impresa è di circa 30 mila euro l’anno. Il costo del lavoro a carico dell’azienda è poco meno di 25 mila euro nelle microimprese e poco più di 42 mila euro nelle grandi. Nonostante la grande differenza del costo del lavoro, il valore aggiunto per addetto è meno di 30 mila euro nelle microimprese e più di 71 mila euro in quelle grandi. Il valore aggiunto è l’incremento di valore che si ottiene nell’ambito della produzione. L’impresa, cioè, acquista una certa quantità di beni e servizi necessari a produrre altri beni e servizi e nel processo di trasformazione delle materie prime crea una certa quantità di valore.

VALORE AGGIUNTO

La differenza tra il valore finale e quello dei beni e servizi acquistati è il valore aggiunto, che è, quindi, indicatore economico sulla capacità delle imprese di creare valore dai processi produttivi. Se una relazione sembra esserci non è quella tra retribuzione dei lavoratori e capacità di incrementare il valore della produzione. Semmai è il contrario, e cioè che a retribuzioni più basse corrisponde una minore capacità di creare valore aggiunto. Al sud, dove le retribuzioni sono media- mente più basse, il plus valore della produzione è inferiore a quelle delle imprese del nord. La relazione che sembra, invece, esserci (e ben evidente) è con gli investimenti. La media degli investimenti per addetto nelle microimprese è pari a 4.400 euro, mentre in quelle grandi è di 11.700 euro. Cioè quasi tre volte. Investire significa innovare sia prodotti che processi. Nei Paesi occidentali, la capacità di creare valore dai processi di trasformazione delle materie prime è ciò che ha per- messo la crescita economica dal dopoguerra fino alla fine del secolo e una diffusione del benessere senza precedenti.

Un processo di sviluppo che si è accompagnato a una crescita delle retribuzioni e a forti investimenti che hanno visto in una posizione non subordinata, soprattutto in Italia, il settore pubblico. Creare valore aggiunto dai processi produttivi significa disporsi strategicamente su mercati diversi da quelli delle economie emergenti. Significa mettere a valore competenze e talenti. Pensare di competere con la Cina o con la Corea comprimendo il costo del lavoro è una follia. Così com’è stato un suicidio, in questi anni, la scelta di alcune imprese di delocalizzare per abbattere il costo del lavoro, pensando di spostare la produzione dove un lavoratore costa meno per vendere a prezzi più competitivi sui mercati italiani ed europei. Al contrario, sarebbe stato molto più conveniente produrre in Italia e vendere in quei mercati in espansione, dove la crescente classe benestante esprime una domanda di «valore aggiunto» rappresentato dalla qualità dei prodotti. Un fenomeno che si è alimentato della convinzione che per rendere più competitive le imprese bisogna comprime- re il costo del lavoro (agendo peraltro sulle retribuzioni e non sulle imposte). Una subcultura che si è sposata con l’assenza di una politica industriale che, negli ultimi dieci anni, ha avuto come effetto un deterioramento delle competenze, tanto che le nuove quote di occupazione hanno riguardato prevalentemente la produzione di servizi a basso contenuto professionale e una diminuzione del «valore aggiunto» espresso dalla trasformazione delle materie prime.

Le imprese italiane che, in
questi anni, hanno retto meglio la
crisi sono quelle esportatrici. E sono
anche quelle che hanno fatto registrare investimenti, livelli di produttività del lavoro, retribuzioni per dipendente e margini di profitto lordo notevolmente superiori a quelli medi.

IL MERCATO

Sono un po’ più grandi della dimensione media delle imprese italiane che, tra l’altro, è tra le più basse d’Europa; 3,7 la media degli addetti. Condividiamo il gradino con il Portogallo e sotto di noi ci sono solo la Slovacchia, la Repubblica Ceca e la Grecia. La stragrande maggioranza delle nostre microimprese ha un mercato che non esce dai confini comunali, al massimo un perimetro regionale. Un vero e proprio mondo che avrebbe bisogno di una politica industriale che incentivi capitalizzazione e investimenti, che dischiuda nuove opportunità verso nuovi mercati. È impensabile pensare a una ripresa senza un sistema di accesso al credito degno di questo nome, senza allentare la pressione fiscale e alleggerire il peso della burocrazia. Basti pensare che tra il 2010 e il 2011 gli investimenti sono diminuiti del 25,9%, mentre l’incidenza dei costi amministrativi sul volume d’affari è notevolmente cresciuta.

I PROBLEMI DELLE AZIENDE

Un’azienda che oggi ha bisogno di una fidejussione bancaria deve immobilizzare un importo di pari valore. Spesso non è sufficiente nemmeno mettere a garanzia il patrimonio personale, visto che il più delle volte è richiesto un deposito in titoli della banca stessa. Un imprenditore deve, quindi, prima acquistare le azioni (assumendosene naturalmente il rischio) e bloccarle per il numero di anni previsti dalla polizza riducendo, di conseguenza, la sua capacità di investimento e il potenziale incremento del valore aggiunto. In questo modo, sono le imprese a finanziare le banche e non viceversa e il sistema del credito diventa una tassa occulta anziché una leva dello sviluppo.
È facile intuire il motivo per cui da noi la crisi è più dura e il futuro più opaco. E che la ripresa dei mercati esteri non sarà sufficiente a far recuperare il terreno perduto in questa lunga fase recessiva. Si possono fare tutte le riforme del mercato del lavoro possibili, ma la soluzione non passa da questo fronte. È dagli anni Novanta che si cerca di far crescere la competitività delle imprese facendo leva su retribuzioni e garanzie dei lavoratori, col risultato che il mercato del lavoro si è progressivamente deteriorato e il valore aggiunto dei processi produttivi è cresciuto in maniera insignificante. Tra l’altro, non vi sono casi documentati secondo cui questa strategia può avere successo. Se una cura non funziona, bisogna cambiarla. E questo è il momento.

L’Unità 23.12.13