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“Ma le idee non hanno età”, di Paolo Di Paolo

Si può chiedere aiuto a un romanzo di cento anni fa? La svolta generazionale in Italia – la «rivoluzione» di cui parlano anche i media stranieri – non è nuova. Ogni epoca vive la propria forma di conflitto – o di dialettica – fra generazioni. Ma c’è qualcosa, nelle pagine del romanzo «I vecchi e i giovani» di Pirandello, che risuona familiare in modo perfino allarmante.

Leggete qui: «La gioventù? Che poteva la gioventù, se l’avara paurosa prepotente gelosia dei vecchi la schiacciava così, col peso della più vile prudenza e di tante umiliazioni e vergogne? Se toccava a lei l’espiazione rabbiosa, nel silenzio, di tutti gli errori e le transazioni indegne, la macerazione d’ogni orgoglio e lo spettacolo di tante brutture?». Il controcanto è nelle parole del vecchio garibaldino Mortara che, stizzito dalle proteste dei più giovani, sbotta: «Perché questi pezzi di galera figli di cane ingrati e sconoscenti debbono guastare a noi vecchi la soddisfazione di vedere questa comunità, l’Italia, divenuta per opera nostra quella che è? Che ne sanno, di cos’era prima l’Italia? Hanno trovato la tavola apparecchiata, la pappa scodellata, e ora ci sputano sopra, capite?».

Tra queste due frontali posizioni, o tutt’intorno, «l’accidia, tanto di far bene quanto di far male», «radicata nella più profonda sconfidenza della sorte, nel concetto che nulla potesse avvenire, che vano sarebbe stato ogni sforzo per scuotere l’abbandono desolato, in cui giacevano non soltanto gli animi, ma anche tutte le cose». Non vi sembra una perfetta istantanea dall’Italia di fine 2013? Il disincanto generale e l’accentuarsi di un discorso politico che mette al centro l’età anagrafica. Nessuno può negare come il paesaggio politico e istituzionale italiano sia mutato nel corso di quest’anno che sta per concludersi. Ma ha ragione Massimo Adinolfi a ricordare, su l’Unità del 24 dicembre, che tali passaggi – più o meno bruschi – di staffetta si sono sempre verificati. In molti, troppi settori i segni di un potere invecchiato e ostile al cambiamento sono più che evidenti: sono scoraggianti. Ma, pur essendo un trentenne, non ho mai creduto che la patente di giovinezza fosse un valore di per sé. Nel piccolo campo della letteratura e dell’editoria, l’esperienza polemica dei cosiddetti «TQ» (i trenta-quarantenni intruppati in virtù del dato anagrafico) mi era sembrata, qualche anno fa, perfino patetica. E infatti è sfumata velocemente. Quando Croce diceva che l’unico dovere dei giovani è quello di invecchiare, recitava la parte del vegliardo cinico o era più sibillino? Credo che con quel brutale «invecchiare» indicasse la necessità di una maturazione, di un’assunzione di responsabilità, di un potersi esporre in virtù di pensieri e azioni anziché del numero di decenni alle spalle. L’Italia degli anni zero e dei primi anni dieci sta vivendo in modo schizofrenico il tema della giovinezza: il Paese è fra i più vecchi al mondo per età media (forse per questo sui giornali alcuni scrittori indicati come «giovani scrittori» hanno quarantacinque anni). Rischia di avvitarsi su un dibattito che non porta da nessuna parte. Un Paese meno vecchio non è un Paese governato da giovani. Un Paese meno vecchio è un Paese con un alto tasso di natalità, con politiche a favore dei neo-genitori. Un Paese meno vecchio è un Paese in cui certe cariche – istituzionali, politiche, accademiche ecc. – si possono ricoprire per un numero limitato di anni: che tu abbia cinquanta o novant’anni, puoi restare sulla stessa poltrona per un tempo limitato. Il potere si incrosta a ogni età. Un Paese meno vecchio è un Paese che investe sulla ricerca scientifica e sull’innovazione tecnologica, che proietta il proprio immenso patrimonio storico-artistico (il proprio passato) sul presente e sul futuro, ricavandone ricchezza. Un Paese meno vecchio è un Paese che investe sulla scuola, in cui un ministro dell’istruzione, lo dico in generale, si circonda di insegnanti e non solo di burocrati, un ministro che con gli insegnanti va a parlare, anziché considerarli applicatori dell’ennesima, spesso vacua riforma. Un Paese meno vecchio è un Paese in cui i giovani hanno ragioni per restare e i vecchi per non sentirsi ai margini. Le idee non hanno anagrafe: che vengano da un sessantenne o da un quarantenne, se sono buone, non fa differenza. E d’altra parte nel Parlamento italiano è scesa l’età media ma questo non è bastato a far fuori l’incompetenza o la volgarità, vedi certi grillini d’assalto e di poca sostanza. Proviamo a concentrarci sulle scelte: possiamo aspettarci parecchio dal 2014 se i quarantenni di destra e sinistra facessero di tutto per dimostrare ai cittadini che la fiducia in loro – come politici, come persone – non è mal riposta. Mi piacerebbe ricordare solo a posteriori, a cose fatte, che quel capo di governo o quel leader «avevano quarant’anni» quando hanno cambiato l’Italia.

L’Unità 27.12.13