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“Sette sogni spezzati il 28 dicembre 1943 i fascisti fucilarono i fratelli Cervi”, di Gianfranco Pagliarulo

Settant’anni fa. 28 dicembre 1943. Sette fratelli: Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio, Ettore. Fucilati dai fascisti della Repubblica Sociale nel poligono di tiro di Reggio Emilia. Con loro, anche Quarto Camurri. Poco più di un mese prima erano stati cattura- ti. La milizia repubblichina aveva circondato la loro cascina a Gattatico, presso Reggio Emilia. Dopo una breve ma violenta battaglia e dopo l’incendio della stalla e dell’abitazione, i fratelli, col padre Alcide Cervi, si arrendono per salvare le mogli e i bambini. Vengono reclusi nel carcere politico dei Servi a Reggio Emilia. Ne escono il 28 dicembre. Il giorno prima in un paese vicino il segretario del fascio era stato ucciso. Ecco la rappresaglia.

«Avevamo vent’anni e oltre il ponte / oltre il ponte che è in mano nemica / vedevam l’altra riva, la vita. / Tutto il bene del mondo oltre il ponte».Così Italo Calvino.

Fra i tanti che «vedevano oltre il ponte» c’erano quei sette fratelli partigiani che avevano costituito la «banda Cervi». Dall’8 settembre 1943 si avvia simbolicamente la storia complessa di quella che poi fu chiamata Resistenza. Mentre gli Alleati risalivano la penisola, i partigiani combattevano nel centro-nord. Dopo meno di due anni di aspre battaglie, si giunse alla cacciata dei tedeschi, alla sconfitta della Repubblica Sociale, al 25 Aprile. La Liberazione. Così gli italiani sconfissero il nazifascismo e, per la prima volta dall’unità nazionale, scelsero la natura dello Stato, la Repubblica, diventando popolo di cittadini e non più di sudditi, e conquistarono, dopo i lavori dell’Assemblea Costituente, la Costituzione.

I Cervi erano una famiglia di contadini con una tradizione antifascista e una propensione verso l’approfondimento culturale. Appassionati alla lettura e al sapere, come si legge sul sito dell’Istituto Alcide Cervi, avevano scommesso sulla modernità: furono fra i primi a procurarsi un trattore e a praticare tecniche innovative per l’agricoltura e per la produzione di latte. Erano perciò parte integrante del mondo rurale ma guardavano oltre l’esistente. La ragione è spiegata da papà Cervi nella sua biografia I miei sette figli: «Da noi trovate famiglie unite come le dita di una mano, e sono unite perché hanno una religione: il rispetto dei padri, l’amore al progresso, alla patria, alla vita e alla scienza. E soprattutto noi contadini emiliani amiamo la patria e il progresso». La «patria»: la terra dei padri, col suo irripetibile portato di passato, memoria, storia, lingua comune e perciò di sedimentazione di valori. Il «progresso »: il futuro, la speranza e il progetto che si incarnano nella fiducia di una continua possibilità d’avanzamento umano. Può stupire oggi l’immagine di un casale di una famiglia contadina ove si trovi un grande mappamondo. Eppure lo si osserva, assieme a quel trattore «Balilla», nel Museo Cervi a Gattatico. Dunque i figli erano contadini che studiavano, a cominciare da Aldo che, come scrive papà Alcide, «era la testa della famiglia». Diverso tempo prima Aldo era andato per più di due anni ad una particolarissima scuola: dietro le sbarre a Gaeta aveva conosciuto esponenti dei movimenti antifascisti ed intellettuali. Si dice che la vicenda dei Cervi costituisca un mito fondativo della Resistenza italiana. Ed è vero, dato il carattere emblematico della loro vita, della loro lotta, della loro morte. Si dice anche che i Cervi, pur legati alle strutture clandestine del Partito Comunista, fossero «indisciplinati». Alcuni, non sempre disinteressati, cercano di contrapporre la storia al mito. Come se occorresse contra- stare i sacerdoti di una ortodossia. La storia/ mito dei fratelli Cervi fa parte non di una ortodossia, ma di una visione laica e critica, per cui i fatti della storia sono sempre incarnati in mo- do contraddittorio e perfettibile. Basti pensare al Risorgimento e alle sue stesse figure-icona, Mazzini, Garibaldi, Cavour. Il sacrificio dei fratelli Cervi è una bandiera della Resistenza italiana, che fu tempo di straordinarie privazioni e di valori generosi; negli anni successivi su quella base si misurarono visioni del mondo critiche, progetti e idealità. Un bagaglio di pensiero, di vita e di politica che sembra smarrito e qualche volta irriso. Eppure dopo la notte del nazifascismo e della guerra rinacque l’Italia, perché ci fu chi, come quei sette fratelli, guardò «oltre il ponte» con ineffabile modernità e con oramai dimenticato rigore morale. Ci si chiede se qualcuno oggi riesca a guardare così lontano.

L’Unità 28.12.13

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