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“Uguaglianza e merito”, di Nadia Urbinati

Si parla spesso del merito come della soluzione ai problemi della nostra società bloccata da un sistema farraginoso e burocratico e da un perverso abito clientelare che premia chi ha amici potenti, non chi ha capacità. Per questo, merito e lavoro appaiono come una coppia inscindibile: il primo come condizione per il secondo. Da un’interessante analisi del voto delle primarie del Pd dell’8 dicembre scorso condotta dall’Osservatorio sulla Comunicazione Politica dell’Università di Torino, risulta che questa sia la tesi vincente e il segno dell’identità ideologica della nuova sinistra centrista. Tra i dati aggregati e interpretati da Luciano Fasano e dai suoi collaboratori emerge che nel suo complesso il Pd è un partito di centro-sinistra autentico nel quale la componente legata alla sinistra tradizionale è scarsamente rilevante nel suo elettorato e ancora di meno tra gli eletti. A comprovare questa valutazione è la collocazione del merito accanto al lavoro e distante dall’eguaglianza nelle proposte dei delegati del gruppo che ha raccolto più consensi.
Non da oggi, il merito gioca un ruolo di primo piano nella riconfigurazione della cultura ideologica della sinistra.
In una società, come la nostra, dove parenti e amici contano sempre molto, più delle vocazioni e delle doti personali, il richiamo al merito è sacrosanto. Ma è un fatto di legalità piuttosto che di giustizia sociale. Anche perché organizzare la società sull’“abilità dimostrata” è alquanto complesso visto che il merito è non solo difficile da misurare e attribuire, ma anche fortemente condizionato dal capitale sociale e dall’ambiente culturale. Per non essere ingiusta considerazione, il merito richiede molta attenzione alla distribuzione eguale delle condizioni di partenza. Per questa ragione un liberal social-democratico come John Rawls non credeva che dal merito potesse partire una politica di giustizia sociale. Perché è difficile spiegare con precisione che cosa sia vero merito, prima di tutto in quanto è impossibile stabilire con certezza il dosaggio tra capacità personali e condizioni sociali. Qualche volta sembra che il merito sia una qualità che la persona riconosciuta meritevole possieda naturaliter come per innata disposizione (talenti) e che con fatica e duro lavoro riesce poi a fare emergere (responsabilità). Ma nessuno sembra soffermarsi abbastanza sulla dimensione sociale del merito, sul suo dipendere profondamente dal riconoscimento sociale e dalla sintonia che si stabilisce tra chi opera e chi ne riceve i frutti o é influenzato dall’operato.
Il giudizio sul merito di una persona è relativo a un settore di lavoro, a determinati requisiti che definiscono una prestazione, all’utilità sociale delle funzioni in un determinato tempo storico e luogo, ovvero al riconoscimento sociale e pubblico. Nel merito entrano in gioco ben più delle qualità della persona. Per questo nelle questioni di giustizia si dovrebbe diffidare di usarlo come criterio per distribuire risorse. Non perché non sia giusto che ad essere assunto in un ospedale debba essere un bravo medico, ma perché non si deve scambiare l’effetto con la causa: è l’eguaglianza di condizione, di trattamento e di opportunità il principio che deve governare la giustizia; il merito è semmai la conseguenza di un ordine sociale giusto. Per non essere privilegio truffaldino, il merito deve sprigionare da una società nella quale a tutti dovrebbe essere concessa un’eguale possibilità di formarsi capacità e accedere ai beni primari (diritti civili e diritti sociali essenziali) per poter partecipare alla gara della vita.
Il Presidente degli Stati Uniti Lyndon B. Johnson raccontò questa storia per far comprendere ai suoi concittadini la necessità di politiche pubbliche, in primo luogo scolastiche: immaginiamo una gara di velocità
tra due persone che partono sulla stessa linea ma una di esse con dei pesi alle caviglie cosicché dopo pochi metri si troverà in irrimediabile svantaggio, nonostante si impegni con tutte le sue forze. Si può ignorare questa differenza di capacità nel giudicare del merito del vincitore? Evidentemente no. In questo caso il vincitore non avrebbe proprio alcun merito. Semmai godrebbe di un privilegio. Perché ci sia una gara onesta ed effettivamente gareggiata occorre rimuovere gli ostacoli dell’altro competitore, e lo si può fare in tre modi: o si libera la persona impedita a gara cominciata e si fa finta che ci sia giusta competizione (affermazione del privilegio), oppure si dà a chi è oggettivamente impedito un vantaggio a gara cominciata (programmi di aiuto a chi ha bisogno) oppure lo si prepara prima che la gara cominci (politiche di cittadinanza sociale).
Non si intende dire con questo che non ci può essere merito meritato; ma che non ci può essere se alcuni partono avvantaggiati o se non si correggono le diseguaglianze di opportunità prima di valutare il merito. Ecco perché senza l’accoppiamento con l’eguaglianza il merito non è un valore di giustizia. A meno che non si controllino tutte le relazioni sociali che presiedono alle nostre scelte individuali (cosa indesiderabile oltre che impossibile da ottenere in una società che vuole restare libera) non si può onestamente parlare del merito come della soluzione ai problemi di ingiustizia sociale (mentre la sua violazione nei concorsi pubblici può comportare illegalità). Si deve invece partire dall’eguaglianza di opportunità e delle condizioni di formazione delle capacità, per esempio da scuole pubbliche di buona qualità distribuite su tutto il territorio nazionale affinchè la gara possa essere davvero aperta a tutti e non si sfoltisca a valle il numero dei potenziali concorrenti.

La Repubblica 30.12.13

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