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“Una donna sola al potere non fa primavera”, di Sara Ventroni

Quando una donna fa politica, cambia la donna. Quando tante donne fanno politica, cambia la politica». Così parlò Michelle Bachelet, molto prima della sua rielezione a presidente del Cile. Ecco, l’almanacco di quest’anno è stretto tra la morte di Margaret Thatcher, l’autarchica Lady di ferro, e il successo – anche se nella voragine dell’astensionismo – di una donna tra le donne.

In questo spazio bianco cadono le contraddizioni del presente, le sfide del domani e tutti i luoghi comuni, compresa l’idea che un incarico di responsabilità affidato a una donna sia il vessillo sotto il quale le altre ascendono di diritto. In quanto donne.

Se ancora nel terzo millennio un donna in posizione apicale è intesa come una metafora salvifica di genere, possiamo stare certi che la salute di tutte le altre non è per niente buona. Christine Lagarde è al Fondo Monetario Internazionale. Janet Yellen è la prima donna alla guida della Federal Reserve. Angela Merkel stravince in Germania e resta la Signora dell’Europa. E allora?

Al netto di un giudizio sul loro operato, non dovremmo meravigliarci di un orrendo tailleur viola al posto di un altrettanto orrendo doppio- petto di lana pettinata. E invece ci si continua a stupire, come se una donna seduta a capotavola fosse bizzarra, e sola, – direbbe il poeta Laforgue – come un ombrello sopra una macchina da cucire.

SODDISFATTE & RIMBORSATE

Nonostante da tempo abbiamo scavallato i rampantissimi anni Ottanta, resiste l’idea che se una ce la fa, le altre possono ritenersi soddisfatte & rimborsate, perché nell’immaginario comune la donna (declinata rigorosamente al singolare) che sfonda il tetto di cristallo, nonostante sia donna, fa tana libera tutte. Ma non è così, e le statisti- che sul gender gap sono qui a raccontarci un’al- tra storia, e un’altra Europa. Lo spread di genere è infatti costantemente in crescita, e una donna al vertice non fa primavera. Come dimenticare, lo scorso anno, la tentazione di un parterre monogenere – sei uomini per sei sedie – nel board della Bce, contro cui si levò la voce di Viviane Reding e il veto del Parlamento europeo? La stampa mondiale gridò al complotto femminista ai danni del povero lobbista lussemburghese Yves Mersch.

Non stupiscono, allora, in contrappasso, i medaglioni tristanzuoli dei rotocalchi – micragnosi risarcimenti di fine anno – con l’immancabile gal- leria fotografica delle eccellenze del genio femminile, declinato per mestieri e vocazioni, a metà strada tra il freak show e l’album delle figurine.

Se il mito negativo della «donna di potere» è duro a morire, nuovi stereotipi hanno già conquistato un posto al sole. Come l’immagine – o meglio: l’icona – di un femminismo d’assalto e di marketing, di lotta e di passerella. I piccoli seni perfetti delle Femen – tutti uguali come le ali di pollo fritto del Mc – che sbucano tra la security, a chiudere in bellezza un G8, non riescono ad esse- re altro che un prodotto mediatico. Qualcosa che vende, e che si vende, ma solo nei titoli.

Tutto il resto è noia. Non ci meraviglia che il movimento – come raccontato nel documentario Ukraine is not a brothel (L’Ucraina non è un bordello) – sia stato partorito dalla testa di un uomo, Vik- tor Svyatskiy, che ama le donne al punto da farnecil suo core business, casting compreso: una stessa femmina, una stessa taglia. Siamo al femminismo da batteria. Su scala, ovviamente, mondiale.

Diversamente performative, le Pussy Riot, punk per scelta ma femministe per caso, sono portate all’attenzione della cronaca planetaria più per innata vena dittatoriale di Vladimir Putin che non per una vera battaglia di idee. Come se, a oggi, l’unica possibilità di linguaggio politico delle donne fosse quella dell’effimera gloria iconografica. E mai niente di più. E non occorre es- sere moraliste per convenire che dove non c’è la parola, raramente può esserci un pensiero. Per- ché il gesto nudo, si sa – escludendo Cindy Sherman – spesso non basta a spiegarsi.

Quando manca la voce, il dialogo è impossibile. La faccia vera della differenza resta nell’ombra. E quando si fa vedere, a testa alta, è solo per mostrare l’offesa: quest’anno Giorgio Napolitano ha nominato Cavaliere al merito della Repubblica Lucia Annibali, avvocata di Pesaro, sfregia- ta con l’acido dall’ex fidanzato. Si è detto che questa donna – il suo sorriso, la sua forza – è il simbolo della lotta al femminicidio.

Possiamo condividere le intenzioni, ma non esserne contente. Nessuna di noi è simbolo, di alcunché. Le icone, anche quelle più edificanti, sono sempre autoassolutorie. Ci si inchina, e si chiede scusa. Per cambiare servono invece le parole. E anche leggi. Come quella contro la violenza sulle donne, approvata in questa disgraziatissima legislatura.

Aldilà delle polemiche e oltre la perfettibilità del testo, la legge ha un grande merito: per la prima volta è detto che la sicurezza fisica delle donne è la precondizione della loro cittadinanza. E non si tratta certo di paternalismo di Stato. La legge, qualsiasi legge, è discrimine di civiltà. Segna un impegno comune, e valori condivisi: nell’anno che sta per finire il legislatore ha riconosciuto – meglio tardi che mai – che nella relazione tra uomo e donna non abita solo il cuore nero della violenza, ma la possibilità di spezzare il giogo degli stereotipi.

E allora, la parola «femminicidio» – come ha ricordato qualche giorno fa, su queste pagine, Beppe Sebaste – porta scandalo. Irrita il lessico. Infastidisce perfino l’ingegno pigro degli intelletti più raffinati. Non c’è da stupirsi. È già accaduto e ancora accadrà. Tante parole sono cadute come grandine sopra i tetti della storia: autodeterminazione, differenza, relazione. Quando la realtà irrompe nel linguaggio, fa male. Ma non abbiamo alternative alla verità. E bisognerà imparare, prima o poi, che non esiste la donna. Esistono solo le donne.

RIDARE SENSO ALLA COMUNITÀ

L’anno che lasciamo alle spalle ci bisbiglia che politica delle donne è già la politica del Paese. Le donne non parlano per metafore, e non parlano solo per sé. Questa è la sfida per il prossimo anno. Non solo in vista delle elezioni europee, già incupite dal populismo individualista e da un depressivo cupio dissolvi.

Le donne dicono che non ce la caviamo invocando diritti individuali, da ordinare alla carta. Non ce la caviamo cancellando la differenza, mitigando i nostri sensi di colpa sotto la calotta del pensiero neutro tecnologico, oltre il maschio e la femmina. Le donne dicono che qui tocca ridare senso alla comunità. Che sia l’Italia, che sia l’Europa: è certo che la prossima rivoluzione è nelle relazioni.

L’Unità 31.12.13