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"Ricerca italiana tra le più citate. Ma fanno notizia solo le classifiche negative", di Francesco Sylos Labini

Questa è una notizia, apparsa sulla rivista Nature, che non è passata sui giornali italiani. La riporto per intero: Gli Stati Uniti stanno scivolando verso il basso nella classifica della qualità della ricerca, misurata attraverso l’impatto citazionale relativo dei suoi articoli [scientifici]. Questo è quanto viene mostrato da uno studio commissionato dal governo britannico. In particolare, gli analisti della casa editrice Elsevier mostrano che gli Stati Uniti sono stati superati nella classifica (normalizzata per disciplina) dal Regno Unito nel 2006 e dall’Italia nel 2012, anche se gli Stati Uniti rimangono ben avanti in termini di quota mondiale del top 1% degli articoli più citati.

In pratica significa che il surrogato della misura della qualità della ricerca, rappresentato dal numero di volte che un articolo scientifico è stato citato, per l’Italia ha superato l’analogo indicatore per gli Stati Uniti – fermo restando che quest’ultimi sono avanti quando si considera solo l’1% degli articoli più citati.

Inoltre dallo stesso studio si trova anche che l’efficienza della ricerca italiana è ottima: ad esempio il numero di citazioni ottenute per unità di spesa in ricerca e sviluppo è secondo solo al Regno Unito e pari a quello Canadese, dunque maggiore di Francia, Germania, Usa, ecc. Certamente questo studio si riferisce solo a quei campi che vengono censiti dalle banche dati bibliometriche come Scopus: ma questi includono tutte le discipline tecnico-scientifiche e bio-mediche, dunque si tratta di un dato assolutamente rilevante.

Insomma questo dovrebbe essere un risultato riportato con una certa visibilità: finalmente un settore in cui primeggiamo, addirittura se rapportati agli Usa, oltre che essere sempre avanti nelle classifiche dei paesi pi ù corrotti, ecc. E invece nessuno ne parla: perché? Perché invece appena esce una nuova classifica delle università, in cui notoriamente gli atenei italiani non occupano le prime posizioni, se ne parla su tutti i giornali, il ministro di turno promette interventi drastici per riportare in vita la ricerca e l’accademica italiana, ogni volta additati per la sentina dei vizi nazionali?

In realtà dovrebbe accadere il contrario. Infatti, le classifiche basate sulle citazioni di articoli scientifici riportano un dato piuttosto affidabile poiché confrontano, per macro-insiemi di ricercatori, un indicatore semplice da misurare, in determinate banche dati, e relativamente rilevante. Considerando che inoltre la spesa complessiva per l’istruzione superiore in Italia è un terzo di quella degli Usa (metà della Francia, Germania, ecc.) bisognerebbe riconoscere l’efficienza del sistema, nonostante che i docenti di ruolo siano i più anziani dei paesi sviluppati, che gruppi di pressione possano agire con la complicità della politica e che fenomeni di malcostume siano piuttosto frequenti nella gestione dei ruoli di potere accademico.

Invece le classifiche delle università confrontano pere con mele: sono stilate in basi a criteri piuttosto arbitrari, non hanno consistenza scientifica poiché la posizione è calcolata in base ad un mix di parametri del tutto questionabili (dalla produzione scientifica, al numero di studenti per docenti) e soprattutto non tengono conto di un non marginale dettaglio. Per capire quale basti ricordare che nel 2012 le spese operative della sola università di Harvard, frequentata da qualche decina di miglia di studenti, solitamente ai primi posti di queste classifiche, equivalgono al poco meno della metà di tutto il fondo di finanziamento ordinario dell’intera università italiana: il problema non è che Harvard sia prima, il problema sarebbe che non lo fosse.

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