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"Ripartire dal coraggio dell'industria che innova", di Marco Fortis

Tra i temi economici toccati dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel tradizionale discorso di fine anno agli italiani spicca il suo autorevole riconoscimento alla vitalità con cui molti settori produttivi della nostra industria hanno saputo reagire alla crisi con l’innovazione e l’export. Un processo che parte da lontano, già dagli inizi degli anni Duemila, quando l’Italia ha dovuto rapidamente cambiare la sua specializzazione dovendo fare i conti col mutato scenario competitivo imposto dall’avvio dell’euro e dalla fine delle svalutazioni competitive, dalla globalizzazione e dalla prepotente ascesa dei Paesi emergenti in diversi settori di base. Un processo che da allora è proseguito costantemente e non si è interrotto nemmeno durante l’attuale recessione. Il peso dei settori tradizionali dei beni per la persona e la casa nell’export italiano, pur restando importantissimo (così come il ruolo di tali settori nelle fasce di più alto valore aggiunto in cui restiamo leader) è diminuito in termini relativi, mentre è straordinariamente aumentato quello di altri comparti che ci hanno resi più moderni e vincenti.
I settori manifatturieri italiani che negli ultimi 12 anni di più sono emersi nel nostro interscambio con l’estero possono essere ricondotti ai seguenti, che chiameremo qui, per semplicità, le Nuove specializzazioni italiane (Nsi): innanzitutto l’automazione-meccanica (macchinari e apparecchi non elettrici ed elettrici, più i mezzi di trasporto diversi dagli autoveicoli), poi i metalli e i prodotti in metallo, gli articoli in gomma e plastica ed anche la stessa raffinazione-chimica-farmaceutica, che, pur in leggero deficit, ha aumentato il suo export in misura assai superiore all’import conquistando nuove nicchie nelle specialità.
La prova più evidente di questo cambiamento nella specializzazione internazionale dell’industria italiana è che nel 2012, su circa 105 miliardi di surplus manifatturiero del nostro Paese, escluse auto ed elettronica (comparti tradizionalmente deficitari), le Nsi rappresentavano ormai il 71% del totale, mentre nel 2000 il loro peso era pari solo al 41 per cento.

Straordinario è stato l’aumento del surplus della sola voce macchine ed apparecchi non elettrici, che era di 22 miliardi nel 2000 ed è salito a 48 miliardi nel 2012. In questo settore ormai l’Italia vanta il più alto attivo con l’estero al mondo dopo i giganti Germania e Giappone.
Non è dunque per mancanza di competitività sui mercati che l’Italia non cresce, come dimostrano i successi delle Nsi, bensì a causa del declino progressivo del potere d’acquisto delle famiglie e più recentemente del crollo della domanda interna. Né vi possono essere dubbi sul fatto che l’Italia, nonostante tutti i suoi problemi, abbia grandi mezzi sul piano dell’apparato produttivo che, se ben indirizzati, possono permetterle di uscire gradualmente dalla crisi. Si tratta di valorizzare tali mezzi con opportune politiche economiche che riducano l’opprimente peso delle incrostazioni statal-burocratiche nell’economia e liberino risorse anche per la crescita della domanda interna e dei servizi, mettendo le imprese nelle condizioni di poter finalmente esprimere tutto il loro potenziale. A cominciare da quello dell’industria manifatturiera che – come ha ricordato il Capo dello Stato – «ha reagito col coraggio dell’innovazione». Una parte di tale industria si è affermata «in nuove specializzazioni» ed ha «così guadagnato competitività nelle esportazioni, ed esibito eccellenze tecnologiche, come dimostrano i non pochi primati della nostra manifattura nelle classifiche mondiali».
Questa industria così vitale e reattiva, al pari dei «semplici cittadini» che hanno sopportato con rispettosa dignità le nuove tasse e i duri sacrifici della crisi, merita anch’essa «rispetto», come ha sottolineato il direttore del Sole 24 Ore nel suo editoriale del 24 dicembre scorso. È un capitalismo silente e laborioso, di cui essere fieri, ben diverso da quello delle rendite facili e delle commistioni con la politica e le maglie larghe della spesa pubblica. Un capitalismo che ha smentito le “cassandre” del declinismo, che ha cambiato radicalmente la specializzazione italiana nel commercio internazionale e che ha portato il nostro Paese ad avere il maggior numero di piazzamenti dopo la Germania nelle graduatorie Itc-Wto della competitività.
Ma anche altri indicatori statistici, ancor più dettagliati, dimostrano gli immani sforzi fatti in questi anni difficili dalla nostra manifattura per reagire alla crisi, sviluppare nuovi prodotti, conquistare nuove nicchie ed aggredire nuovi mercati. Secondo una analisi di Fondazione Edison, su circa 5.500 prodotti in cui si può suddividere statisticamente il commercio mondiale, l’Italia nel 2011 poteva vantare 1.438 beni in cui era tra i primi 5 Paesi al mondo per attivo commerciale con l’estero (con 235 primi posti, 390 secondi posti, 321 terzi posti, 264 quarti posti e 228 quinti posti), per un controvalore complessivo di tali surplus pari a 221 miliardi di dollari. E, restringendo l’analisi ai soli circa 4.000 beni manifatturieri, l’Italia è, dopo la Cina, il Paese che nel 2011 ha battuto più volte la super-competitiva Germania per surplus con l’estero, in 1.215 prodotti.
Questo capitalismo italiano sano e innovativo, irriducibile e sempre più proiettato internazionalmente, non chiede “aiuti” ma semplicemente meno burocrazia e un programma concreto ed ampiamente condiviso dalle forze politiche e sociali per ridurre su un orizzonte temporale certo le tasse su imprese e lavoratori. Un qualunque Paese “normale” che avesse una manifattura forte come la nostra, con una straordinaria meccanica (che spazia dalle macchine per imballaggio alla rubinetteria, dalle pompe agli scambiatori di calore, dalle macchine per l’industria alla meccatronica), che potesse vantare il dominio mondiale nei beni di lusso per la persona e la casa che noi abbiamo, nonché un importante turismo, beni culturali e artistici di valore inestimabile ed una agricoltura di qualità in prodotti vincenti come il vino, l’olio d’oliva, la frutta e gli ortaggi, tutte cose che l’Italia possiede, da tempo avrebbe già fatto precise scelte di politica economica per rilanciare l’economia su tali basi. Non starebbe ancora a chiedersi in una sterile successione di dibattiti, tentennamenti o rimpalli di responsabilità su che cosa puntare prioritariamente per ritrovare la via della crescita e dell’occupazione. La risposta è una e una sola possibile per chi vuole realmente capire su cosa l’Italia deve investire e scommettere: bisogna puntare sulla manifattura, sull’economia reale del made in Italy e sul suo indotto di servizi. È, questa, l’Italia da “rispettare”, che tutto il mondo ci invidia ma che la nostra classe politica non sa valorizzare.
È «in questo nucleo forte, vincente dell’industria e dei servizi» – per usare le parole del Presidente della Repubblica – che si possono trovare «esempi e impulsi per un più generale rinnovamento e sviluppo della nostra economia, e per un deciso ritorno di fiducia nelle potenzialità del paese».

Il Sole 24 Ore 02.01.13