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"Quel che resta della politica se dalle piazze si passa al web", di Riccardo Luna

Una consultazione online fa molto chic e ancora non impegna (purtroppo). Come certi bracciali di bigiotteria che servono a fare scena per una sera e basta. Con lo stesso meccanismo, quando non si sa bene cosa fare, con la e-democracy non si sbaglia. E così accade che la democrazia elettronica, che pure sarebbe un obiettivo teoricamente meraviglioso, è diventata l’ultima moda della politica in crisi di autorevolezza e a corto di idee, non solo in Italia; e come tutte le mode rischia di sparire al prossimo cambio di stagione. Non funziona!, diranno per sbarazzarsene. Quando in realtà stanno facendo di tutto per non farla funzionare. E se davvero dovesse andare così sarebbe un peccato perché in tanto confuso attivismo c’ è del buono. C’è la promessa di una trasparenza dei dati pubblici utile e non legata al mito grillino degli scontrini del bar. C’è la speranza di una partecipazione dei cittadini alla vita pubblica non rissosa o biliosa, ma competente e collaborativa (possibile con l’aria fetida che si respira a volte sul web? Pare di sì). E c’è il mito del governo “open”, “aperto”, quale unica via per rafforzare e rilanciare l’esangue democrazia rappresentativa.
Gli ultimi segnali in questa direzione sono molto forti. E indurrebbero un cauto ottimismo. Per esempio alla fine di novembre nel Regno Unito il presidente della Camera dei Comuni John Bercow, un cinquantenne di punta del partito conservatore, ha convocato i leader di Facebook, Twitter, Google, Apple e Microsoft non per chiedere loro conto di come usano i nostri dati personali, visti i rapporti del servizio segreto inglese con la Nsa americana, ma addirittura per aver suggerimenti su come favorire la partecipazione dei cittadini alla vita politica in una auspicata transizione verso la democrazia elettronica. La più antica democrazia del mondo che chiede aiuto alla Silicon Valley: a qualcuno sarà andato di traverso il whiskey. E qualche giorno dopo da Nashville, nel Tennessee, l’imprenditore-attivista americano Rod Massey, che in estate aveva raccolto 780mila dollari di finanziamenti per la sua startup Citizengine(più o meno: motore-cittadino), lanciava la prima app, iCitizen grazie alla quale seguire il dibattito politico statunitense e intervenire sulle questioni calde, ovvero «tutta la forza della democrazia sul vostro telefonino!», come recita lo slogan sul sito. Il tono è quello della réclame di fustino di detersivo, è vero, ma la app non è affatto male.
Il fenomeno della e-democracy non nasce oggi, anzi: viene da lontano (sono dieci anni esatti che si parla di rafforzare la democrazia con la rete); vanta alcuni successi clamorosi (la bozza di Costituzione islandese riscritta anche attraverso la partecipazione dei cittadini attraverso i social media; il voto elettronico in Estonia; il bilancio partecipato in certi comuni del Brasile); e ha da poco assunto il rango di un obiettivo mondiale grazie alla Open Government Partnership, un’alleanza alla quale partecipano – distrattamente invero – un centinaio di paesi.
Ma, per strano che sembri, è l’Italia la frontiera più avanzata verso una democrazia diretta o quantomeno molto partecipata. La causa va rintracciata naturalmente nel Movimento 5 Stelle, che ne ha fatto una bandiera, ma non solo. Nonostante l’età avanzata dei suoi ministri, fu il governo Monti ad avviare la stagione delle consultazioni online: a un certo punto se ne contarono cinque aperte contemporaneamente. Chi partecipava? Perché? Cosa se ne faceva l’esecutivo di quelle indicazioni? Chi garantiva l’autenticità del processo e chi tutelava i diritti degli assenti, che sono sacrosanti a meno di non voler instaurare una dittatura degli attivi? Sono tutte domande rimaste senza risposta, anzi sono domande che nessuno si è davvero mai posto in quei mesi e neanche dopo. Neanche adesso. Il richiamo delle consultazioni online deve essere sembrato troppo forte per fermarsi un istante a ragionare su come farle funzionare davvero: non c’era tempo forse anche per il tentativo un po’ goffo di arginare la domanda di partecipazione via web emersa con il grillismo.
E così quando a Palazzo Chigi si è insediato Enrico Letta, il ministro della Riforme istituzionali Gaetano Quagliarello ha lanciato un sito per chiedere ai cittadini quale modello di forma di governo adottare. E qualche giorno fa il ministro Maria Chiara Carrozza ha annunciato addirittura una maxi consultazione online sul tipo di scuola che vogliamo. Il suo predecessore, Francesco Profumo, con questo sistema dovette rimangiarsi l’impegno ad abolire il valore legale del titolo di studio perché via web emerse una volontà contraria. È questa la politica che vogliamo? Eterodiretta da attivisti col clic facile? Forse no. Perché in effetti se uno avesse voglia di guardare davvero dentro queste mitiche consultazioni digitali scoprirebbe cose curiose.
Per esempio, la consultazione più nota del governo Monti riguardò la spending review: venne chiesto ai cittadini di mandare una mail con le spese da tagliare; ne arrivarono 151.536, una enormità, ma solo 80.236 vennero esaminate, per le altre 71.300 non ci fu nemmeno uno sguardo (senza contare che la foto della pila di mail stampate in un ufficio di Palazzo Chigi era l’immagine stessa dello spreco di carta da tagliare…).
Con la consultazione avviata da Quagliarello è andata anche peggio: il ministro si era rivolto a due giovani civic hacker molto esperti, Donatella Solda Kutzman e Damien Lanfrey, che avevano allestito un sito chiaro e rapido per informarsi e dire la propria: “Partecipa!”, il titolo. Risultato: «203.061 questionari validi!», esultò il ministro dopo tre mesi, «è stata la più grande consultazione online d’Europa ». Già, ma a qualcuno interessa davvero cosa hanno detto quei cittadini, il loro parere conta adesso che il dibattito sulle riforme è entrato nel vivo? Zero.
Non è andata meglio finora con gli esperimenti in area Beppe Grillo e dintorni. Il punto di partenza è stato Liquid Feedback, una piattaforma per la democrazia diretta realizzata dal Partito pirata tedesco. Dopo un fallimentare test con il programma tv Servizio Pubblico nel 2012, una nuova versione è stata adottata da un gruppo di parlamentari del partito democratico guidati da Laura Puppato: Tu Parlamento doveva servire a portare in aula le migliori proposte dei cittadini. Bello, ma dal 6 settembre scorso il sito è fermo. Nel frattempo i grillini si sono spostati su Airesis: è una nuova piattaforma sviluppata da un gruppo di volontari «che vogliono una democrazia più evoluta ». Il vero test di Airesis avrebbe dovuto essere a Parma, nell’unico comune amministrato da un sindaco grillino. «Vogliamo convincere tutti i cittadini di Parma a iscriversi», era il proposito iniziale. Se ne sono perse le tracce. Intanto febbraio dovrebbe essere il mese clou per un altro esperimento a 5 stelle: si chiama Parlamento Elettronico e vuole «trasformare l’Italia nel più avanzato laboratorio di democrazia digitale del pianeta». Per un obiettivo così importante la raccolta fondi procede un po’ a rilento: duemila euro.
I problemi non sono solo italiani. La Commissione Europea ha appena lanciato una consultazione
monstre sul copyright che richiede di scaricarsi un file word di 140 pagine. Impossibile partecipare. E così la parlamentare del Partito pirata svedese Amelie Andersdotter e un gruppo di hacker durante le feste di Natale hanno realizzato un sito multilingue che rende facile e intuitiva la partecipazione. Morale: solo i civic hacker, gli smanettoni animati da senso civico, possono salvare la e-democracy.

La Repubblica 09.01.13

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“E-democracy, l’inganno in un clic”, di CURZIO MALTESE
Non abbiamo bisogno di attendere febbraio e il risultato della consultazione online lanciata da Beppe Grillo.
Non abbiamo bisogno di attendere febbraio e il risultato della consultazione online lanciata da Beppe Grillo per conoscere la proposta di legge elettorale «liberamente votata» dagli iscritti al Movimento 5 Stelle. Si può scommettere sin d’ora che non sarà nessuna delle tre ipotesi maggioritarie (sindaci, sistema spagnolo, Mattarellum corretto) avanzate dal Pd di Renzi, ma una quarta di base proporzionale che, vedi il caso, coincide con gli interessi aziendali della Grillo&Casaleggio associati. In questo modo l’unica maggioranza possibile sarà ancora quella destra-sinistra, con Pd e Berlusconi, e Grillo potrà sempre gridare all’inciucio.
Grillo&Casaleggio non vuole liquidare l’orrido regime della Seconda repubblica, altrimenti voterebbe una legge maggioritaria puntando alla vittoria finale. Preferiscono lucrare il più possibile sul caos politico, alla faccia e sulla pelle degli italiani. Beppe è stato un grande comico e potrebbe evitarci queste pagliacciate della cosiddetta democrazia diretta, ma nella presa per i fondelli dei propri elettori è compresa questa finzione, già sperimentata con successo con le parlamentarie, che hanno eletto senatori e deputati i militanti con più parenti, e le quirinarie, una vera farsa. Alle quirinarie gli iscritti avevano votato, sempre liberamente, una lista di candidati utile alla strategia dei capi: mettere in difficoltà il Pd, ma senza arrivare a un accordo per un nome condiviso (Prodi, per esempio).
Sono convinto che Internet sia un passo indietro rispetto all’evoluzione della specie. Di sicuro lo è per la democrazia, retorica a parte. Il partito-movimento di Grillo, che è il più grande fenomeno politico mondiale nato dalla rete, ne è una conferma clamorosa. Con tutte le chiacchiere sulla democrazia diretta e «l’uno vale uno», il Movimento 5 Stelle è un partito autocratico da anni Trenta. Non si era mai visto uno schieramento con il marchio depositato alla camera di commercio e protetto da uno stuolo di legulei. I capi concedono o negano il marchio, vedi il caso Sardegna, secondo logiche aziendali. Decidono quando fare le dirette streaming e quando non farle. Le consultazioni online sono riservate ai soli iscritti, per giunta quelli della prima ora, poche decine di migliaia di persone, spesso molto meno. I risultati sono palesemente decisi da Grillo e Casaleggio, che possono anche non comunicarli, come hanno fatto dopo il primo turno delle quirinarie. I commenti non in linea con la volontà dei capi sono sistematicamente espulsi dal sito. Il quale sito, peraltro, rimane di propriet à di Grillo, che lo usa per vendere propri prodotti e pubblicità. È la follia. Eppure i seguaci non fiatano, illusi di partecipare con un clic al grande gioco. Gianroberto Casaleggio, ideologo della democrazia in rete, è del resto un oligarca e un teorico del governo della rete da parte di un’élite illuminata.
Lungi dal liberare i cittadini dalla passività del mezzo televisivo, la rete ha costruito una base di finta partecipazione che permette a chi comanda di decidere da solo, ma fra gli applausi dei sudditi. Oltre a impedire la partecipazione, la rete limita anche il dibattito. O meglio, abbassa il dibattito a un livello tale da renderlo del tutto inutile, se non come pretesto per sfogare la rabbia di qualcuno e la pazzia di molti. Su Internet sono tutti esperti, scienziati, profeti. Il dato oggettivo non esiste perché, almeno in questo, uno vale davvero uno. Si assiste dunque a discussioni su argomenti importanti e complessi affidati a pseudo studiosi, con corredo di deliranti teorie del complotto e vere e proprie leggende metropolitane. Al confronto, perfino i dibattiti in Parlamento sembrano una faccenda seria. Si parte con i petrolieri che bloccano da decenni l’auto all’idrogeno e le case farmaceutiche che boicottano la cura contro il cancro, e si finisce con chi ha visto le sirene e i microchip della Cia sotto la pelle. Poiché tutto è complotto, nulla lo è.

La Repubblica 09.01.14