attualità, cultura, memoria

"Il codice di Babilonia", di Giulio Azzolini

“Sono in mesopotamia le vere origini della nostra politica. Parla l’archeologo Giorgio Buccellati, docente a Los Angeles, che per anni ha scavato nella regione. “Lo sviluppo del linguaggio urbano e il politeismo hanno portato il progresso scientifico”
«Nel 1968, entrando nell’Istituto Orientale di Los Angeles dove lavoravo con mia moglie Marilyn, alzai gli occhi e riconobbi una scritta sulla facciata: “Le passioni dell’irrilevanza”. A ripensarci, fu una sorta di monito». Da allora è come se Giorgio Buccellati, archeologo, classe 1937, non abbia mai smesso di “rilevare”. Oggi si divide tra la California e la Val d’Ossola, ma ha attraversato il mondo, scavando in Siria, Turchia, Iraq e Caucaso. Distinguendo l’effimero dal prezioso. Calibrando le epoche sul metro dei millenni. Ricostruendo grammatica e semantica di lingue morte («meglio non chiamarle così», precisa). E sforzandosi di mostrare la rilevante attualità di ciò che un giorno apparteneva a una civiltà «interrotta» (l’aggettivo giusto).
Professore, leggere i primi due volumi del suo Corpus mesopotamico. Il paese delle quattro rive pubblicati negli ultimi mesi da Jaca Book (gli altri due usciranno nel 2015), dà una sensazione di vertigine. Per lei la preistoria non è un passato oscuro e ineffabile, ma la radice viva di questo nostro terzo millennio. È così?
«Sì, lo scopo del progetto è proprio comunicare il valore sostanziale della civiltà mesopotamica per il mondo contemporaneo. Il racconto è basato sulla lettura dei dati con cui ho lavorato per tutta la vita, ma l’universo che questi rivelano è descritto in vista di interessi perenni, dunque anche presenti. Alle origini della politica dà la prospettiva cronologica alla serie. Il pensiero nell’argilla e Le forme della fantasia saranno dedicati rispettivamente alla letteratura e all’arte. E«Quando in alto i cieli… », benché sia uscito per primo, è il libro idealmente conclusivo».
Lei confronta la spiritualità politeistica della Mesopotamia con la religiosità monoteistica della Bibbia. Qual è la differenza tra le due?
«Il contrasto principale riguarda l’atteggiamento nei confronti dell’assoluto. Il monoteismo biblico rinuncia a frammentarlo e così a spiegarlo; il politeismo mesopotamico, invece, lo fa a pezzi per poterlo analizzare e controllare. Sono strutture culturali parallele e irriducibili, ma è la spiritualità mesopotamica ad aver fatto da matrice storica per il secolarismo e il progressismo scientifico. Non bisogna prendersi troppo gioco del politeismo, perché i riti e le mitologie celano una razionalità variegata e rigorosa,che sotto diversi aspetti permane».
Nella civiltà mesopotamica avrebbero luogo anche le «grandi trasformazioni » all’origine della politica occidentale. Vorrebbe indicarle?
«Il motore iniziale, che ancor oggi è acceso, non scaturisce tanto dalla rivoluzione urbana, hurrita prima e sumera poi. La prima grande trasformazione è l’introduzione nel tardo paleolitico del linguaggio articolato e sintattico. Il secondo fattore decisivo è la funzionalizzazione. La società nasce quando il rapporto tra gli uomini passa dal personale al funzionale: esiste una certa casella funzionale, la quale vincola chiunque vi sia inserito ad agire in un modo preciso e perciò prevedibile ».
Qui entra in scena il potere. Perché individua nella «direzionalità» la sua natura più propria?
«Il termine leadership ormai è usurato, tanto da confondersi con l’idea di comando. Invece il potere, non solo quello antico, è sì violenza, ideologia, amministrazione, ma anche e soprattutto capacità di creare consenso su una linea precisa, che stabilisca il senso di un gruppo. Non a caso nell’etimologia di “governo” risuona il termine “timone”. Per non parlare della metafora del re pastore, che risale al terzo millennio a.C.».
Stando all’indice, Alle origini della politica sembra un manuale di relazioni internazionali: si parla di egemonie e stati, di sovranità e territorialità.
«Non bisogna fossilizzarsi sul nominalismo. Ai mesopotamici non erano aliene le parole, ma il modo formale, tipicamente moderno, di analizzarle. Ad esempio, non avevano le parole “verbo” o “aggettivo”, ma utilizzavano verbi e aggettivi. Come non c’era una grammatica della lingua mancava una teoria della politica, eppure parlavano e chiaramente conquistavano».
Il libro contiene persino una chiave di lettura del postmoderno. Accenna alla post-istoria, insiste sull’idea di controllo e, soprattutto, sull’analogia tra globalizzazione e impero. Perché?
«L’impero si sviluppa pienamente con gli assiri, ma il suo concetto è quasi viscerale. L’impero non è uno Stato grande, è una compagine di elementi eterogenei ideologicamente unificati. La logica imperiale tende a includere l’intera ecumene e non tollera nulla al di fuori di sé. In questo somiglia molto alla globalizzazione odierna».
Il suo sembra un approccio archeologico al mondo, non tanto al sapere, come quello che tentava Michel Foucault. Che cos’è per lei l’archeologia?
«L’archeologia non è una teoria, tantomeno una filosofia della storia. Ciò che l’archeologo, e nessun altro, fa è disseppellire e rendere ragione dei materiali di civiltà collassate su loro stesse. E per ricostruire la sensibilità e l’esperienza di tradizioni interrotte, nessun loro portatore cosciente può fornirgli testimonianza. Un archeologo è solo nel confronto coi dati. Per giocare col titolo di Oliver Sacks, è sempre “un archeologo su Marte”».
Lei, invece, è archeologo cosmopolita per formazione. Laurea in Lettere classiche alla Cattolica, PhD a Chicago, cattedra a Los Angeles. Quali sono stati i suoi maestri?
«A Milano ho imparato l’ebraico da Giovanni Rinaldi. A Chicago il mio supervisore in assiriologia fu Ignace Gelb. Ma ho studiato anche filosofia, a Innsbruck e a New York con Dietrich von Hildebrand».
Finché nel 1973 fonda l’Istituto di Archeologia all’Università della California, oggi tra i più importanti al mondo…
«Ero molto giovane e, benché lavorassi già come archeologo, insegnavo soprattutto linguistica e storia. Immaginavo una scuola che esaltasse il dialogo fra le tre discipline. Una profonda vocazione interdisciplinare che è rimasta ».
Lei è stato tra i primi a utilizzare il computer negli scavi archeologici.A cosa le è servito?
«L’archeologia è l’unica scienza dove non si può ripetere l’esperimento. Il computer consente di registrare i momenti dello scavo e di ottenere una grammatica della stratigrafia. Ma il computer non è solo un mezzo di lavoro: ha inciso sulla mente umana più di ogni altro strumento. Introducendo un “pensiero digitale” fatto di ipertesti, registri paralleli e, soprattutto, di nessi inediti».
La maggior parte delle persone, però, si accontenta della mobilità virtuale. Invece a lei andava stretta anche la carriera accademica. Perché? Nasconde forse uno spirito da Indiana Jones?
«No, no (ride), non ho mai subito il fascino dell’esplorazione in quanto tale. Il fascino della conoscenza, quello sì. Se ho potuto avvicinarmi al mondo degli scavi, è perché conoscevo il babilonese. Ma l’archeologia ha sempre attratto il cinema. Qualche anno fa, Martin Sheen ha festeggiato il suo compleanno con noi a Urkesh».
Aveva allestito una scenografia degna di Hollywood…
«Per lui era così, ma io preferisco pensarmi come un direttore d’orchestra. Gli strumenti sono i reperti: affinché suonino, rievocando l’atmosfera di una civiltà antica, a me tocca disporli con armonia nel sito. La difficoltà è che, per riuscirci, non c’è spartito su cui possa contare».

La Repubblica 10.01.14