attualità, cultura

"Ma quanto sono falsi gli anni di piombo in tv", di Antonio Di Pollina

Forse è il momento di una moratoria per le fiction di ricostruzione storica. Intendiamo quelle che tralasciano qualsiasi spunto narrativo fondante e fanno invece da surrogato a un libro di storia recente. Il caso limite del Commissario degli
Anni spezzati di RaiUno è una specie di punto di non ritorno, uno slalom lungo quattro ore a evitare la tale questione e a inserirne un’altra, a saltare un punto di vista e a squadernare atti giudiziari: se anche, grazie magari al buon Solfrizzi, si vuole raccontare una parabola umana e tormentata e tragica, conviene lavorare di richiami e rimandi. È del tutto chiaro che il marchio a fuoco della fiction italiana per il grande pubblico (presunto e non raggiunto, sempre più spesso) condiziona tutto e tutti. Come per le vite di personaggi famosi strette in miniserie da due puntate: si obbedisce a codici precisi, per cui alla fine in quella di Padre Pio ti sembra di ritrovare lo stesso passo di certi momenti della fiction su Walter Chiari.
Si somigliano tutte perché c’è un dettato comune a cui si obbedisce, salvo rivendicare il merito di richiamare l’attenzione dei giovani e di chi non c’era. A parte che i giovani chissà dov’erano in queste sere, c’è una pretenziosità di fondo che ormai urta: alla fine si scontentano tutti — per il Commissario una specie di plebiscito al contrario — e non si centra nemmeno l’operazione di centralità del racconto sulla prima rete. Logica vorrebbe che vicende impossibili come gli anni 70 venissero prese di striscio mettendo invece al centro storie minori o di fantasia, lasciando intendere a chi vuole intendere. Ogni tanto ci si riesce. Ma questa del “vieni qui che ti racconto in tv la storia” è ormai una tentazione da lasciare lontana il più possibile. Non siamo capaci punto e basta. O servirebbero ben altri calibri e orizzonti e scritture da
mettere in gioco.

La Repubblica 10.01.14

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“Troppe caricature sul caso Calabresi”, di Aldo Grasso

Quando si affrontano certi temi bisogna avere il coraggio di assumersi alcune responsabilità, non bastano le buone intenzioni. La trilogia de «Gli anni spezzati» affronta fatti che grondano ancora sangue (la strage di Piazza Fontana, l’omicidio del commissario Calabresi, il terrorismo politico, gli intrighi di Stato…); ma raccontare i dieci anni «che hanno sconvolto l’Italia» significa innanzitutto prendersi una responsabilità storica (Raiuno, martedì, 21.10).

La Rai ha la forza di dire com’è morto Pinelli? Gli sceneggiatori, al di là dei libri a cui si ispirano, hanno l’autorevolezza per far luce su quelle tenebre? L’impressione, vedendo «Il commissario», è che gli sceneggiatori Graziano Diana, Stefano Marcocci e Domenico Tommasetti si siano limitati a mettere in fila i fatti di cronaca eludendo ogni risposta decisiva. Ma la responsabilità più grande che viene a mancare è quella della scrittura. A parte la scelta iniziale di far raccontare la storia a un giovane militare di leva romano, Claudio Boccia (Emanuele Bosi), assegnato alla caserma Cadorna, tutto il resto è insipienza narrativa.

Le figure del commissario Calabresi (Emilio Solfrizzi), di Giuseppe Pinelli (Paolo Calabresi), o quelle di Pietro Valpreda, Camilla Cederna, Giampaolo Pansa, Giangiacomo Feltrinelli spesso stingono in caricatura, anche visiva, non hanno alcuna profondità, né umana né storica. I dialoghi sono improbabili e, soprattutto, il materiale di repertorio, nella sua sfrontata secchezza, mette in serio imbarazzo i tentativi scenici di ricostruzione.
Come fossero due epoche differenti. Uno dei compiti principali della fiction del Servizio pubblico sarebbe quello di raccontare il nostro passato, avendo però la forza di esprimere una linea editoriale, qualcosa che faccia riflettere, distolga lo spettatore dall’indolenza espressiva. Qui si naviga fra la più astratta aridità dei luoghi comuni e il garbuglio dei buoni sentimenti.

Il Corriere della Sera 10.01.14

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