attualità, politica italiana

"L’alleanza dei distruttori", di Michele Prospero

La battaglia in vista delle elezioni europee si rivela ogni giorno più dura. La drammatizzazione dello scontro non è una novità. Sono ormai vent’anni che la politica italiana è gettata in un infinito processo costituente. Senza un approdo stabile, una cronica eccitazione febbrile rende ogni cammino compiuto provvisorio, destinato all’oblio. E ogni volta compaiono un scena nuovi attori, ad affiancare i vecchi arnesi che non demordono, in una radicalizzazione della contesa che non trova mai una misura. Il populismo non è un semplice stile eccentrico della protesta.

È diventato un dato di sistema. Non solo la novella formazione grillina, ma anche le forze che più a lungo hanno occupato le stanze del governo nel corso della seconda repubblica, e cioè la Lega e Forza Italia, adottano un profilo dichiaratamente antisistema. Il populismo si propone cioè come la blasfema grammatica comune di una politica che ha smarrito solidi confini.

In una tale situazione fluida, Matteo Salvini cerca di contenere l’estinzione del Carroccio. E lo fa attraverso la maschera di un radicale soggetto antagonista. Va in piazza con il governatore piemontese per difenderlo dalle sentenze dei giudici amministrativi (la legalità delle firme apposte in calce alle liste andrebbe comunque vagliata prima della sopraggiunta prova di legittimità offerta da una consultazione elettorale già svolta). E con la ripulsa dell’euro, vile strumento del piano di dominio tedesco che ha impoverito i produttori, con il grido dell’insubordinazione contro le potenze tecnico-finanziarie di Bruxelles, con il sostegno alla guerra santa dei forconi ostili agli aumenti dei pedaggi stradali, con gli affondi di sapore xenofobo, la Lega tenta la carta della rivolta e dell’intolleranza per non perire.

Giudici, euro, tasse, forconi sono anche per Berlusconi il cavallo di una battaglia estrema per tentare una disperata risalita nei consensi smarriti. L’annuncio della sua impossibile candidatura come capolista alle europee, è solo una mossa per accentuare la portata simbolica dello scontro. Il disegno è quello di indossare ad ogni occasione gli abiti sgualciti del leader che è sempre in

campo e che però viene sempre azzannato al momento cruciale dal complotto dei giudici. Sono le Procure che gli impediscono il sublime rito della riconferma della fiducia carismatica tramite l’unzione elettorale del suo popolo rimasto fedele.

Su un piano diverso, anche Grillo enfatizza la disperazione sociale e parla di delegittimazione degli equilibri istituzionali. Le simbologie aggressive del comico non sono però la causa della malattia, sono il sintomo di una crisi sociale che ancora non trova efficaci risposte di governo. La battaglia contro le intemperanze, gli eccessi, i dialettismi del populismo trionfante è vana se si limita alla richiesta di un più ragionevole esercizio dell’arte della critica misurata. Quello che serve è anche la costruzione materiale di una combattiva coalizione sociale indispensabile per imporre delle politiche di radicale svolta rispetto al binomio rigore e austerità.

Già nel febbraio scorso le tre forze dell’antipolitica raggiunsero nel complesso il 55 per cento dei consensi. Il progetto di contenimento della slavina populista attra- verso un programma massimo di stabilità, risanamento, revisione elettorale e costituzionale è però naufragato. E bisogna ricostruire un altro piano di intervento. Il governo Letta può ancora svolgere una qualche funzione positiva ma solo se assume consapevolmente il raggio d’azione di una missione limitata (con un cammino incerto e contraddittorio, tra mille agguati) e però verificabile nel suo impatto reale.

L’errore più grave che potrebbe commettere il Pd è quello di sbagliare nella valutazione dei reali rapporti di forza oggi esistenti. Il rischio viene da un possibile sviamento cognitivo determinato da una copertura mediatica «amica», che rende difficile decodificare in maniera puntuale gli spostamenti molecolari di opinione. Una complicità quasi totale dei media crea finti spostamenti di consenso, superficiali tendenze di sostegno che danno al leader l’illusoria sensazione di onnipotenza.

Nulla è più pericoloso di questa strana ebbrezza. La fonte dell’alienazione politica di massa continua a risiedere nella frustrazione dei ceti medi impoveriti, nel risentimento dei giovani senza canali di inserimento. E per mutare gli umori resistenti di queste forze sociali reali catturate dai populismi, l’arma di sfondamento predisposta dai media amici con l’industria del marketing di sicuro non basta. Alla fenomenologia della rabbia reale, che la destra agita con una spregiudicata arte, si risponde con un’altra idea di Italia, con la rifondazione di una comunità.

L’Unità 12.01.14