attualità, politica italiana

"La Costituzione indifesa", di Claudio Sardo

Anche la Lega in piazza contro una sentenza della magistratura, quella del Tar che ha annullato le elezioni in Piemonte. Berlusconi fa scuola. «Giudici comunisti», gridavano i manifestanti. Non che fossero in tanti, ma guai a sottovalutare il contagio populista. La divisione dei poteri non è rispettata perché neppure viene riconosciuta: così il populismo riduce la politica al primitivo conflitto amico-nemico.

Chi non è con me, è contro di me. Le garanzie, le autonomie, i limiti, insomma tutto ciò che tiene in equilibrio un ordinamento democratico, è tollerato solo finché conviene. Come si può riformare allora il nostro sistema in crisi, se le istituzioni non vengono percepite come una casa comune e l’unico metro di misura è la convenienza per sé? La deriva populista della destra è un prezzo salato per il Paese. E il populismo si diffonde oltre Berlusconi e il suo imitatore Grillo. Quanti altri inveiscono, con toni di delegittimazione, contro la Corte costituzionale o contro il presidente della Repubblica quando non condividono una sentenza o una scelta?

Peraltro, in tutti gli ordinamenti occidentali il peso dei «poteri neutri» e degli istituti di garanzia sta crescendo. Non ci sono solo la Consulta, o la Cassazione, o le Corti d’Appello, o la magistratura amministrativa a emettere sentenze che incidono sulla politica. Ci sono le istituzioni europee. Ci sono le Autority. Ci sono la Corte di Lussemburgo e quella di Strasburgo. Se il mercato e l’Europa riducono da un lato il potere della politica nazionale, dall’altro le stesse autorità di garanzia stanno diventando interdipendenti e più veloci di quanto non riescano a essere le istituzioni titolari della sovranità democratica. Se non altro, è per questo che bisognerebbe mettere mano a un’opera di manutenzione della Costituzione. Per salvarla, per rivitalizzarne i principi, per attuare ciò che non è stato attuato, si dovrebbe aprire un vero e proprio cantiere democratico. Il tema è tornare a tracciare i confini dei poteri, a rilegittimare gli istituti di garanzia, oltre a restituire agli italiani una democrazia decidente. Quando in passato il populismo ha travolto queste distinzioni, è stata aperta la porta a svolte autoritarie. In questa legislatura non c’è il clima per fare le riforme che servirebbero. Ma qualche riforma – non solo la legge elettorale – va fatta, altrimenti il sistema collasserà. C’è da augurarsi che non si trascuri il tema degli equilibri e delle garanzie costituzionali. La democrazia governante non è quella che assicura la vittoria a uno degli attori anche a costo di compromettere i limiti dei poteri: questa è stata semmai la filosofia di leggi mostruose come il Porcellum.

Tutti vogliamo una legge maggioritaria per favorire coalizioni omogenee e governi efficaci in un contesto diventato ormai tripolare. Ma la legge elettorale non può annullare il buon senso, né stravolgere gli istituti di garanzia. Non si può, ad esempio, portare un partito o una coalizione del 35% al 60% dei seggi perché, a Costituzione invariata, cambierebbero la figura stessa del Capo dello Stato (potrebbe eleggerlo una maggioranza di grandi elettori corrispondente a una minoranza politica) e l’equilibrio della Corte costituzionale (con conseguenze sulla sua legittimazione). Uno dei mali di questo ventennio è stato proprio quello di deformare, surrettiziamente, la forma di governo attraverso le leggi elettorali. Ne è venuto fuori il peggio. La rivista Arel ha ripubblicato di recente l’ultima intervista rilasciata da Leopoldo Elia. È un vero e proprio appello a preservare l’equilibrio e i «confini» dell’ordinamento. Ed è un monito a quanti intendono usare il maggioritario, non per favorire la governabilità in un sistema parlamentare, ma per forzare il sistema verso un’impropria elezione diretta dell’esecutivo. L’equilibrio tra i poteri è più importante della stessa scelta tra le forme di governo. Tanto che Elia, da sempre sostenitore del modello parlamentare, arriva a dire che sarebbe preferibile il presidenzialismo americano piuttosto che un sistema ibrido fondato su una legge elettorale ultra-maggioritaria, in grado di travolgere le funzioni di garanzia.

Il rischio democratico è che un maggioritario irrazionale ci conduca a un sistema senza contrappesi, oppure a un presidenzialismo di fatto senza un Parlamento davvero legittimato. Così si alimenterebbe ancor più il populismo. Berlusconi, dopo aver dimostrato con le leggi ad personam quale sia il suo senso dello Stato, sta oggi minacciando un’opposizione anti-sistema e anti-euro. E Grillo, nel suo penoso discorso di fine anno, ha persino proposto di sopprimere la Corte costituzionale. In questo scenario il Pd non può permettersi di sbagliare misura. Non può dire che tutte le leggi elettorali vanno bene purché assicurino a uno dei tre poli la maggioranza assoluta dei seggi. Questa logica somiglia troppo al populismo. Elia suggerì in quella intervista, sempreché si voglia restare all’interno dei principi della nostra Costituzione, di rafforzare il sistema parlamentare con il voto di fiducia a una sola Camera e con la sfiducia costruttiva: sono riforme che valgono molto più di qualunque legge elettorale e che deformano molto meno i profili del Capo dello Stato e dell’Alta Corte. Ci auguriamo che i difensori della Costituzione facciano sentire la loro voce: sarebbe un paradosso che la mobilitazione in difesa dell’art. 138 (minacciato da una piccola modifica che peraltro ne rafforzava le garanzie) ora non abbia alcun seguito mentre un confuso dibattito sulla legge elettorale può alterare, nella sostanza, i fondamentali istituti di garanzia.

L’Unità 13.01.14