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"Bisogna ripartire dal «setaccio» della scuola media", di Orsola Riva

Cornuti e mazziati. In un Paese che ha superato la soglia angosciante del 40 per cento di giovani disoccupati, ora «scopriamo» che il problema non è (o non è soltanto) la crisi del mercato del lavoro sempre più asfittico. Il problema è anche che le abilità, con antipatica parola inglese le «skills» di cui dispongono i giovani in cerca di un impiego, non rispondono alle richieste dei potenziali datori di lavoro. In nessun Paese il disallineamento è così forte: da noi quasi un datore di lavoro su due lamenta di non trovare le competenze giuste di cui avrebbe bisogno. Un dato, in realtà, non così sorprendente. Non solo non facciamo pi ù figli, ma i pochi giovani che abbiamo li perdiamo per strada. È l’esercito dei Neet (not in education, employment or training): oltre due milioni di giovani fra i 15 e i 29 anni che né studiano né lavorano. Alcuni hanno il diploma, altri neanche quello. L’Italia ha il record di abbandoni scolastici in Europa: il 17,6% di alunni (con punte del 25% nel Mezzogiorno) lascia i banchi di scuola troppo presto. Se si vuole capire come mai da noi i giovani faticano tanto a trovare lavoro bisogna risalire la corrente degli studi e ripartire dalla scuola media. Spiega Stefano Molina, dirigente ricercatore della Fondazione Agnelli: «Da noi la scuola media funziona come un setaccio che divide i ragazzi in tre gruppi: i più bravi al liceo, quelli così e così negli istituti tecnici e i più scarsi nelle scuole professionali. Così si uccide la possibilità di fare degli istituti professionali, di cui pure il Made in Italy avrebbe tanto bisogno, una scuola seria». Ma neanche i laureati se la passano bene. Come ha ricordato il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, da noi studiare conviene meno che altrove: è per questo che, complice la crisi (e l’innalzamento delle tasse universitarie) molte famiglie non spronano più i figli a iscriversi all’università e solo il 58% dei diplomati si immatricola (dieci anni fa erano il 73%). La «colpa» è in parte delle università che (come mostrato dalla ricerca sui Nuovi Laureati della Fondazione Agnelli) licenziano dei giovani robusti nelle competenze disciplinari ma scarsi in quelle trasversali (capacità di lavorare in gruppo, di consegnare un lavoro nei tempi prestabiliti ecc.) magari anche perché durante il corso di studi non hanno mai fatto stage o comunque stage davvero utili. In parte però anche di un mercato del lavoro che in Italia sembra essere meno favorevole che altrove ai laureati stessi. «Da noi — spiega Andrea Cammelli di Almalaurea — il 37% dei manager ha solo un diploma di scuola media, mentre in Germania i manager laureati sono la stragrande maggioranza. E, come dimostrato da uno studio recente di Bankitalia, un manager laureato assume tre volte più laureati di un manager che non lo è».

Il Corriere della Sera 14.01.14

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“I giovani italiani che ignorano quello che serve per lavorare”, di luigi Offeddu

La prima è una notizia tristemente già vecchia, da archivio: «La disoccupazione giovanile in Italia è raddoppiata dal 2007, toccando il 40% nel 2013». (41,6% oggi, ndr ).
Ma la seconda no, la seconda notizia morde nel vivo: «Tuttavia, questa cifra è solo parzialmente dovuta alla crisi economica: i problemi ribollono molto più nel profondo… Il 47% dei datori di lavoro italiani riferiscono che le loro aziende sono danneggiate dalla loro incapacità di trovare i lavoratori giusti, e questa è la percentuale più alta fra tutti i Paesi esaminati».
Infatti: lo stesso lamento echeggia fra il 45% degli imprenditori greci, il 33% degli spagnoli, il 26% dei tedeschi. Ma da nessuna parte, come da noi. In Italia, dunque, cercansi coloro che hanno gli skill , le attitudini, le capacità, i talenti richiesti da questo o quel settore. Ce n’è tanti. Gli imprenditori non li trovano, loro non sanno come e dove farsi cercare: «Non hanno le informazioni su come prendere decisioni strategiche». Domanda e offerta non si incontrano, e nessuno spread riesce a farle metterle in contatto, a far scattare il semaforo.
Tutto questo dice il rapporto McKinsey, condotto su otto Paesi Ue e presentato ieri a Bruxelles presso il centro di ricerca Bruegel («Il viaggio tempestoso dell’Europa, dall’educazione all’occupazione»).
Il dossier spiega anche che «la Ue ha il più alto tasso di disoccupazione ovunque nel mondo, a parte il Medio Oriente e il Nord Africa». Per poi sferzare: «In Italia, Grecia, Portogallo e Regno Unito sempre più studenti stanno scegliendo corsi di studio collegati alla manifattura, alla lavorazione, nonostante il brusco calo nella domanda in questi settori. E in generale, non è una cosa positiva vedere un ampio numero di giovani scommettere il loro futuro su industrie in decadenza… Ci sono abbinamenti sbagliati, educatori e imprenditori non stanno comunicando fra loro».
È precisamente quanto accade nel nostro Paese: «Datori e fornitori di lavoro o di istruzione hanno percezioni molto differenti. Il 72% degli educatori in Italia pensano che i ragazzi abbiano le attitudini di cui avranno bisogno alla fine della scuola; ma solo il 42% degli imprenditori concorda con questo. La percezione di questo divario riflette una mancanza basilare di comunicazione. Solo il 41% dei datori di lavoro dice di comunicare regolarmente con i dirigenti delle scuole, e solo il 21% considera questa comunicazione effettiva».
In apparenza, tutto sarebbe abbastanza semplice: bisogna, dicono i ricercatori McKinsey, «incoraggiare gli educatori a insegnare quello che gli imprenditori richiedono».
Ma l’apparenza sfuma quando, per esempio, si studia la differenza fra il «desiderio» di un imprenditore nei confronti di certe capacità professionali e la competenza reale in quegli stessi skill dei giovani in attesa del posto: in Italia, il «desiderio» o bisogno imprenditoriale di una buona conoscenza dell’inglese fra i propri dipendenti è soddisfatto solo dal 23% degli aspiranti, e quello di una competenza informatica appena dal 18%. Mentre la richiesta di creatività, che in Germania trova solo un 13% di risposte fra i giovani, in Italia arriva al 19%. Ma resta anche un concetto assai vago. In cima a tutti i sogni degli imprenditori resta la «conoscenza pratica», in qualunque settore (risposta del ventenne: ma dove la faccio, l’esperienza, se tu non mi assumi?). Mentre il lavoro più ambito dai nostri giovani è il creatore di siti Web (61% contro il 58% di «sì» dei giovani tedeschi): e però cercansi attitudini supportate da conoscenze, anche qui.
Le conseguenze di tanti squilibri si ripercuotono in ogni settore. Gli stage, i periodi di rodaggio in azienda, un tempo considerati isole di speranza e anello diretto fra la scuola e il lavoro? Il 61% in media dei giovani europei trova un posto di lavoro al termine di uno stage. In Italia, sono meno del 46%. E ancora: Portogallo, Italia e Grecia hanno la più alta percentuale di giovani che riferiscono di non aver potuto frequentare l’università per ragioni economiche; «ed è in questi tre Paesi che la più bassa proporzione di giovani (sotto il 40%) ha completato l’istruzione post-secondaria».
Chissà che cosa avrebbe detto oggi il buon maestro Manzi, quello di «non è mai troppo tardi».

Il Corriere della Sera 14.01.14