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"Il deficit dimenticato dei diritti di libertà", di Michele Ainis

D’ accordo, la legge elettorale. D’accordissimo, la riforma della Costituzione. E poi il lavoro, le tasse, la semplificazione burocratica. È questa la nostra corona di spine. Ma c’è un’altra spina che ci ferisce il cranio, un’altra urgenza fin qui rimasta sotto un cono d’ombra, a parte qualche battibecco fra Renzi ed Alfano: la questione dei diritti civili. Eppure il lascito della Seconda Repubblica non è soltanto il debito pubblico, o il debito etico della politica verso il pubblico. Ne abbiamo ricevuto in dono anche un deficit di diritti, di libertà. Non a caso tornano adesso in discussione la legge Bossi-Fini sull’immigrazione o la Fini-Giovanardi sulle droghe. Leggi sopravvissute ai propri artefici, reperti di un’epoca trascorsa.
Tuttavia quell’epoca si riflette ancora nel nostro specchio normativo. Nel divieto di fecondazione eterologa (cioè con un donatore esterno alla coppia), permessa viceversa in Francia, in Spagna, in Svizzera, in Norvegia. Nonché in varie altre contrade, e infatti il turismo riproduttivo muove 10 mila coppie l’anno. Si riflette nelle ordinanze dei sindaci, che proibiscono di dare l’elemosina o di sedersi in tre su una panchina. Nei castighi di legge se ti metti al volante dopo aver bevuto un amaro (il tasso alcolico consentito è sceso a 0,5%; in compenso semaforo verde agli ottantenni). Nel reato di clandestinità, che abbiamo potuto misurare durante l’ultima tragedia di Lampedusa (ottobre 2013): 363 morti, un centinaio di superstiti giocoforza incriminati. Nel tabù che ammanta le unioni civili per i gay, o più in generale i diritti degli omosessuali, dove i politici papalini sono talvolta più ortodossi del Papa.
Poi, certo, c’è chi fa di meglio. Per dirne una, in Inghilterra una legge del 1988 vieta ai parlamentari di morire in Parlamento. Noi, però, ai divieti insensati sommiamo inadempienze scellerate. Nessuna legge sul diritto d’asilo, nonostante i moniti di Napolitano. Né contro la tortura. Né sul voto amministrativo agli immigrati regolari, lasciando senza rappresentanza il 5,3% della popolazione residente. Né sul divorzio breve (in Francia bastano 3 mesi, qui ci vogliono 3 anni). Né sul testamento biologico, come viceversa accade negli Usa non meno che in Germania.
Verboten , proibito. D’altronde il nostro ordinamento ospita 35 mila reati, un record planetario. E il Senato vorrebbe adesso aggiungervi il reato di negazionismo, punendo con 3 anni di galera chi (odiosamente) confuta la storia. Gli unici progressi avvengono sotto dettatura della Corte di Strasburgo: è il caso del diritto al cognome della madre, è l’altolà rispetto ai 64 mila detenuti stipati nelle carceri italiane. Sicché i diritti civili soffrono, mentre quelli sociali avvizziscono per penuria di risorse. Il fondo per la famiglia è passato da 346 milioni nel 2008 a 31 milioni l’anno scorso. La Sanità dimagrisce di 2 miliardi l’anno. Sempre nel 2008, le Regioni avevano in cassa 656 milioni per le politiche sociali; nel 2012 hanno speso 10 milioni.
Da qui l’esigenza di voltare pagina. Possiamo farlo in nome dei principi liberali, o altrimenti per un principio di solidarietà verso i più deboli. Dovremmo farlo, in ogni caso, per riconciliarci col principio di non contraddizione. Offeso da bisticci logici e pasticci giuridici. Come la legge sulla fecondazione assistita: per tutelare il diritto del nascituro a conoscere entrambi i genitori, gli impedisce di nascere. Come il suicidio: provarci non è un reato, ma lo diventa se ti fai aiutare, se sei inchiodato a un letto come Welby; dunque puoi ucciderti soltanto se stai bene. O infine come il voto degli italiani all’estero (che non pagano tasse) rispetto al non voto degli immigrati regolari (che le pagano). Dopotutto, la questione dei diritti è una questione di buon senso.

Il Corriere della Sera 15.01.14