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"La scommessa sull’economia", di Stefano Lepri

Tra gli incubi dei tedeschi sull’Europa, una crisi della Francia era il peggiore. Sarebbe stata brusca, con effetto di valanga, e nemmeno la Germania avrebbe avuto le forze per frenarla. Solo il solido legame politico tra i due Paesi, che regalava a Parigi una fiducia salda dei mercati, ha concesso alla sinistra francese questo lungo anno e mezzo di tempo, dopo il ritorno al potere, per chiarirsi le idee su come governare.
Non a caso ieri François Hollande, nell’annunciare (senza riconoscerla nei termini) la svolta liberale del suo socialismo, ha anche puntato tutte le sue carte sull’intesa con Berlino. C’è ora un motivo sostanziale per riavvicinare le due economie principali dell’euro: una maggiore omogeneità di politiche interne, la Germania un po’ spostata a sinistra dalla grande coalizione, la Francia convintasi a lasciare illusioni annose di rilancio fatto in casa.

La novità pesa anche da noi. Non solo a sinistra molti hanno finora sostenuto che avremmo dovuto fare come la Francia, ossia forzare la mano al massimo per allentare le regole di bilancio europee, usare la spesa pubblica per il rilancio. Ora all’Eliseo si sono convinti anche loro che quella ricetta non funziona: conti con l’estero ancora in negativo, ritardo perfino rispetto all’Italia nel farsi largo sui mercati emergenti, produzione in persistenti difficoltà.

Il chiarimento interno che il Partito democratico italiano ha condotto con le primarie, il Partito socialista francese lo ha realizzato nel chiuso dei palazzi, eppure l’esito è simile. Ridurre la spesa pubblica per abbassare le tasse sul lavoro, semplificare le procedure burocratiche, modernizzare il sistema tributario divengono ora gli obiettivi principali dopo che nei primi diciotto mesi la presidenza Hollande aveva compiuto mosse incoerenti tra loro e spesso maldestre.

La Francia condivide con noi molti difetti, meno evidenti grazie a una amministrazione pubblica più efficiente e meno corrotta della nostra. Un carico fiscale più alto di quello italiano viene meglio sopportato grazie alla minore evasione; ma gli arcaismi sono profondi, tipo l’imposta sul reddito senza ritenuta alla fonte e con criteri in parte risalenti a 90 anni fa.

Simile è la difficoltà di concentrare lo sforzo del governo a favore del lavoro e dell’impresa manifatturiera scontentando lobbies potenti, rendite, settori protetti. Davanti sia alla Francia sia all’Italia è il compito arduo di accrescere la competitività senza rinunciare al modello sociale europeo: lo stesso in cui riuscì 10 anni fa in Germania, ma con seri costi di popolarità, il governo rosso-verde di Gerhard Schroeder e Joschka Fischer.

Annunciate solo ora con le spalle al muro di un record di impopolarità, le promesse di Hollande hanno grande portata: realizzarle comporterà dire parecchi no. Ma le piazze è meglio averle contro passando all’azione, trasformando, piuttosto che averle contro perché non si fa nulla, come stava cominciando a succedere anche al di là delle Alpi: perché quando non si fa nulla, guidare la protesta risulta troppo facile ai demagoghi che promettono tutto e il contrario di tutto.

Se l’economia francese avesse tutti i difetti che le attribuiscono i tedeschi, sarebbe andata a fondo da un pezzo; e d’altra parte il modello Germania al momento non funziona nemmeno nei due Paesi più affini, Austria e Olanda, entrambi frenati da difficoltà. Che Parigi si metta in cerca di una nuova strada, attenta insieme all’industria e al lavoro, non può che essere un vantaggio per tutti; anche se per noi alzerà il livello delle sfide.

La Stampa 15.01.14