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"Alla ricerca dell'immunità", di Agnese Codignola

Non capita quasi mai che «Science», nel compilare la lista delle 10 aree più rilevanti dell’anno, ponga in cima alla classifica una disciplina clinica. Quest’anno però è successo, e la vetta è stata assegnata a un approccio che, pur non avendo dispiegato ancora tutte le potenzialità e chiarito tutti i dubbi, potrebbe costituire un autentico punto di svolta nella cura del cancro: l’immunoterapia. Big Pharma ci crede, e sta investendo fiumi di denaro in un campo snobbato fino a pochi anni fa; l’accademia ci si sta buttando a capofitto, e le agenzie regolatorie stanno cercando di seguire i continui avanzamenti senza ripetere gli errori grossolani del passato. Anche per questo, per il mutamento di pelle indiretto che l’approccio immunologico sta causando in una delle aree più importanti della medicina, «Science» ha fatto una scelta così atipica. E l’Italia partecipa al giubilo, visto che è uno dei fulcri della ricerca grazie al lavoro di Michele Maio, direttore dell’unico reparto dedicato proprio al l’immunoterapia dei tumori, all’Ospedale Santa Maria alle Scotte di Siena.
Maio, un passato a Napoli, ad Aviano e in alcuni dei più prestigiosi Cancer Center degli Stati Uniti, che ha iniziato a lavorare sul sistema immunitario e sui suoi rapporti con le cellule trasformate quando era poco più che un laureato, così riassume in che cosa consiste questo modo di pensare la lotta al cancro: «Per anni ci si è chiesti come mai il sistema immunitario non riesca a essere efficace contro il cancro come lo è contro virus e batteri, e a poco a poco il quadro ha iniziato a farsi più chiaro. Si è capito che il tumore attiva dei veri e propri freni che impediscono ai linfociti e ad altre componenti di reagire a dovere. Di lì a pensare di neutralizzare questi freni il passo è stato relativamente breve».
I primi studi, che si devono soprattutto a James Allison, dell’Anderson Cancer Center di Houston, risalgono alla fine degli anni Ottanta: Allison, infatti, ha identificato il primo possibile target, la proteina chiamata Ctla-4, da cytotoxic T-lymphocyte antigen 4, e dimostrato che, nei topi, il suo blocco portava a una riduzione delle masse tumorali. Da allora è iniziata una fase di approfondimenti e verifiche che ha portato a scoprire altri possibili bersagli come la proteina Pd-1 (da Programmed death) e la Pdl-1 (Programmed death ligand) e a molti altri in studio e nelle pipeline delle aziende, il primo dei quali, ipilimumab, è già in clinica anche in Italia, per il melanoma. Molto, tuttavia, resta da chiarire. Spiega Maio: «L’immunoterapia non funziona bene in tutti i pazienti: in alcuni assicura remissioni o stabilizzazioni durature, in altri no. Dobbiamo quindi capire come identificare i malati responder e trovare i marcatori specifici».
Un altro grande punto di domanda riguarda la durata dell’effetto, cioè la riattivazione del sistema immunitario. «Non sappiamo ancora se sia o meno definitiva come avviene, per esempio, per le vaccinazioni contro le malattie infettive». Questi due aspetti, chiarisce ancora l’oncologo, sono cruciali e porteranno a modifiche sostanziali in tutta la ricerca sul cancro. «I protocolli per lo studio di questi farmaci e anticorpi – prosegue infatti Maio – prevedono complesse sequenze di chemioterapici classici, farmaci biologici e immunologici. Nessuna azienda può portare avanti ricerche cliniche di questo tipo da sola, né possiede tutto ciò che occorre. Ciò sta determinando la nascita di inedite forme di collaborazione, che contribuiscono a ridurre i costi e a velocizzare i tempi. Prima tali sinergie erano impensabili».
Ma non solo le aziende si stanno velocemente adeguando: anche il sistema delle agenzie regolatorie, preoccupate dei costi di queste cure (ipilimumab costa in media 120mila euro a paziente), stanno cercando di trovare strumenti nuovi per contenere gli sprechi, obbligando le aziende a investire anche sui marcatori di risposta e coinvolgendo i centri di ricerca pubblici e privati. «Sta cambiando il paradigma, e l’Italia, una volta tanto, è pronta», commenta l’oncologo, che nel 2004 ha dato vita al Nibit ( www.nibit.org), il network italiano per la BioTerapia dei Tumori e, nel 2010, alla fondazione Nibit, per sostenere la ricerca indipendente e l’informazione ( www.fondazionenibit.org).
Nato all’inizio con il coinvolgimento di 4-5 gruppi di ricerca, oggi il Nibit ne annovera 150 sparsi in tutto il Paese, che partecipano a molti studi nazionali e internazionali sia di base che clinici, e che hanno contribuito, per esempio, a fare dell’Italia e di Siena in particolare il centro mondiale di uno studio sull’impiego del tremelimumab (monoclonale anti Ctla-4) nel mesotelioma, tumore associato all’amianto contro il quale c’erano ben poche armi a disposizione. I risultati, pubblicati su «Lancet Oncology» a settembre, hanno mostrato che, dopo due anni, la sopravvivenza dei malati era del 40%, un tasso impensabile con le terapie tentate finora. Altri trial in corso a Siena e in tutta Italia, spesso in collaborazione con altri centri di vari Paesi, stanno verificando l’efficacia dei modulatori immunologici in quasi tutte le forme tumorali. «In futuro – conclude Maio – l’immunoterapia costituirà il quarto approccio alla cura del cancro, insieme alla chirurgia, alla radioterapia e alla chemioterapia. Riattivare il sistema immunitario può infatti consentire all’organismo di guarire da solo o comunque di ottenere una remissione duratura e senza i gravi effetti collaterali delle terapie classiche, cioè di cronicizzare la malattia: un risultato impossibile con gli altri approcci farmacologici».

Il Sole 24 ore 19.01.14