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"Le critiche sbagliate a Obama", di Roberto Toscano

Le critiche al presidente Obama sembrano diventate negli Stati Uniti uno sport molto popolare. Lo criticano i progressisti, delusi da una performance presidenziale molto al di sotto delle entusiasmanti promesse che avevano caratterizzato la sua prima campagna elettorale. Lo criticano soprattutto i conservatori, secondo cui Obama sarebbe in politica interna un pericoloso liberal (anzi, un socialista) e in politica estera un debole paragonabile a Carter, per di più impegnato a diminuire la potenza dell’America attraverso l’abbandono del suo ruolo imperiale.

Oggettivamente la delusione dei progressisti non può tanto riferirsi a quello che Obama ha effettivamente realizzato come presidente. La sua risposta alla crisi economica, certo a lui non imputabile, non solo è stata sostanzialmente efficace, ma è stata basata su misure espansive, e addirittura su provvedimenti di temporanea nazionalizzazione, piuttosto che sull’austerità che ha caratterizzato le politiche anticrisi in Europa. E, quali che siano stati i compromessi sul piano legislativo e gli errori emersi in fase di applicazione della riforma della sanità, resta pur vero che Obama ha saputo tradurre in realtà l’antica aspirazione progressista di garantire una copertura a tutti i cittadini americani.

L’equivoco dei progressisti è stato quello di non capire chi fosse in realtà Barack Obama. Obama è un autentico liberal dal punto di vista ideologico, ma come persona è un centrista, nel senso che il suo modo di intendere non solo la politica in generale, ma il suo stesso ruolo di Presidente, è centrato sulla sistematica ricerca del consenso, di un punto intermedio fra posizioni contrastanti. Tutti gli inquilini della Casa Bianca hanno sempre retoricamente proclamato di voler essere «i Presidenti di tutti gli americani». Obama ci crede davvero.

La disgrazia per lui è quella di trovarsi di fronte un’opposizione ben diversa da quella con cui avevano avuto a che fare i suoi predecessori democratici, cioè un partito repubblicano sottoposto all’egemonia del radicalismo del Tea Party, e come conseguenza un Congresso in cui la ricerca di compromessi bi-partisan, un tempo normali nella prassi parlamentare americana, è diventata praticamente impossibile.

E vi è di più. Il segreto inconfessabile è che nei confronti di Barack Obama esiste un’ostilità profonda dovuta non solo alla politica (in quanto liberal, per molti americani un epiteto che squalifica) e alla cultura (è senza dubbio un intellettuale, categoria tradizionalmente impopolare), ma anche e forse soprattutto alla razza. Qualche tempo fa, in un’intervista pubblicata sulle pagine di questo giornale, lo scrittore Paul Auster diceva: «Non ho mai visto un odio così ottuso contro un Presidente».

Proprio così, al punto che Obama viene considerato da molti americani non solo inaccettabile politicamente, ma addirittura illegittimo. Il 20 per cento degli americani è convinto che sia musulmano, e una percentuale analoga pensa, nonostante i documenti anagrafici, che non sia nato negli Stati Uniti e quindi non avrebbe potuto diventare Presidente.

Il paradosso del rigetto di Obama sulla base del pregiudizio razziale è dato dal fatto che sarebbe davvero difficile dire che la sua presidenza si stia caratterizzando per un’impronta, o una sensibilità, «afro-americane». Obama in realtà non è un african-american, ma piuttosto è africano e americano, essendo figlio di un keniota immigrato negli Stati Uniti per ragioni di studio e di un’americana bianca. Non lo è soprattutto culturalmente, essendo stato cresciuto dalla madre e dai nonni materni, che lo chiamavano Barry. La comunità nera degli Stati Uniti, pur entusiasta per la sua elezione alla Casa Bianca, non lo sente epidermicamente come un brother (a differenza da come viene vista Michelle, autentica e calorosa sister) e forse ha qualche inconfessata nostalgia per Bill Clinton che, per la sua straordinaria sintonia ed empatia con gli afro-americani, era definito «il primo presidente nero».

Le critiche principali nei confronti di Barack Obama si riferiscono alla politica estera, e anche in questo caso accomunano, seppure con valenze di segno opposto, sinistra e destra. Per quanto riguarda il campo progressista, sarebbe difficile negare che Obama ha mantenuto la promessa di mettere fine alle disgraziate iniziative militari di George W. Bush. Gli americani si sono effettivamente ritirati integralmente dall’Iraq e stanno per farlo, anche se non è ancora chiaro in che misura, dall’Afghanistan. Ma la svolta rispetto agli anni di Bush è ben lungi dall’essere completa. Guantanamo, nonostante le promesse di Obama, rimane in funzione, certo per l’opposizione del Congresso, ma anche per lo scarso vigore del Presidente nel portare avanti il progetto di chiusura. I droni continuano a volare e a colpire (ormai con un bilancio che ascende a varie centinaia di morti, fra cui non pochi civili innocenti) dall’Afghanistan allo Yemen. E che dire poi del sistema di intercettazione delle comunicazioni, un sistema indiscriminato, indifferente ai limiti della privacy, diretto non solo contro potenziali terroristi ma a 360 gradi, anche nei confronti di Paesi amici e dei loro massimi leader?

Su questo va detto che Obama ha due giorni fa preannunciato una serie di misure tese a limitare il sistema di intercettazioni, prendendo atto così dell’ineludibile impatto delle rivelazioni di Snowden, che quindi non è forse un criminale, ma qualcuno che, pur violando la legge, ha sollevato un problema reale ed indotto il sistema a riformarsi.

Le critiche più radicali si riferiscono alla politica estera nei confronti del mondo arabo-islamico. In primo piano troviamo quella che è oggi la partita più importante: la trattativa sulla questione nucleare iraniana, un tema su cui in Senato è emersa una bi-partisanship anti-Obama, con un numero di senatori democratici che, sensibili alle pressioni israeliane (e della potente Aipac), potrebbero votare con i repubblicani per introdurre, con effetti devastanti sulla trattativa, nuove sanzioni.

Sull’Afghanistan, di fronte alle cupe prospettive che si aprono in vista del ritiro degli americani e degli altri contingenti Isaf, si accusa Obama di essere tentato dalla «opzione zero», ovvero da un ritiro totale.

In Iraq, la recrudescenza – ai limiti della guerra civile – della contrapposizione sunniti-sciiti suscita numerose critiche rivolte ad un ritiro affrettato che ha lasciato spazio ad un inquietante rilancio della presenza di Al Qaeda.

Critiche pesanti anche nei confronti della politica nei confronti dell’Egitto, dove Obama viene da alcuni accusato di avere abbandonato troppo precipitosamente l’alleato Mubarak e di avere commesso l’errore di una sostanziale apertura di credito nei confronti di quei Fratelli Musulmani che erano sembrati l’unico passaggio verso una democratizzazione del Paese, rivelandosi poi sia autoritari che inetti.

Durissime anche le critiche – in questo caso provenienti, in modo del tutto convergente, dal campo liberal e da quello conservatore – per quella che viene considerata un’ingiustificabile passività nei confronti della tragedia senza fine di una Siria dilaniata, con i liberal che denunciano l’insensibilità nei confronti della tragedia umanitaria e i conservatori che accusano Obama di permettere la sopravvivenza del tiranno Assad e di conseguenza il trionfo del suo padrino, il regime iraniano, e di Hezbollah.

Le incertezze non sono certo mancate, eppure i critici di Obama non sembrano in grado di offrire un’alternativa credibile e sostenibile alla sua politica. L’unipolarismo americano e la pretesa di imporre con lo strumento militare la propria politica ovunque, erano una nefasta illusione, dato che i nodi politici che caratterizzano l’area che va dall’Afghanistan al Nord Africa non possono certo essere sciolti dall’esterno. Quanti anni ancora di occupazione americana sarebbero stati necessari per creare un Iraq stabile e pluralista o un Afghanistan con stato di diritto e democrazia?

Obama sta soltanto prendendo atto del fatto che non esiste alternativa ad una diplomazia che conta anche su elementi di potenza, sia militare che economica, ma che deve anche riconoscere i limiti, e valutare con realismo le prospettive di successo, i prezzi da pagare, la sostenibilità delle strategie.

Si può essere d’accordo con Graham Fuller, già vice del National Intelligence Council della Cia, che ha scritto recentemente sul New York Times: «Può darsi che la presunta debolezza di Obama e le sue incertezze non siano se non il primo barlume di saggezza nell’oscuro tunnel delle disastrose politiche che hanno caratterizzato i decenni trascorsi da quando abbiamo raccolto un calice avvelenato – quello di essere la sola superpotenza mondiale».

La Stampa 19.01.14